Studente morto a Perugia, i messaggi dell’orrore prima del suicidio: «Ammazzati e zitto»

Un 18enne arrestato per istigazione al suicidio

Andrea Prospero, studente universitario al primo anno di informatica all’Università di Perugia, è morto suicida nella camera dove è stato trovato, presa in affitto nonostante alloggiasse in un ostello. Ma ad ammazzarsi sarebbe stato «aiutato» da un ragazzino come lui, appena diciottenne, romano, che è stato posto agli arresti domiciliari per istigazione al suicidio.

Diciottenne mai incontrato di persona e conosciuto sul web solo con il suo nick name, al quale però aveva confidato problemi, ansie ed insofferenze rispetto alla vita universitaria e il pensiero di uccidersi. Così come sul web aveva contattato, ma anche in questo caso mai visto, un altro coetaneo originario della Campania, indagato per avergli venduto il medicinale oppiaceo che portò alla morte (per questo il reato ipotizzato è cessione di stupefacenti). È questo il quadro ricostruito dall’indagine della Procura di Perugia, che ha coordinato l’attività della squadra mobile e della polizia postale sulla morte dello studente.

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«Solo il primo tassello» dell’inchiesta, hanno però evidenziato gli inquirenti: perché legati alla morte di Prospero ci sono diversi punti ancora da chiarire.

L’indagine della Procura e i punti ancora da chiarire

Come l’affitto della camera, con i familiari tenuti all’oscuro, e soprattutto le 46 sim card trovate nella stanza, oltre a cinque telefoni cellulari e un computer portatile. Tutto materiale ritenuto non giustificabile con la vita da studente e le condizioni economiche.

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E di cui, anche in questo caso, i genitori di Andrea nulla sapevano. «Ditemi chi era mio figlio, perché quel ragazzo trovato con telefoni, sim e carte di credito non è il ragazzo che ho conosciuto per 19 anni. Le cose non tornano», disse non a caso il padre Michele qualche giorno dopo il ritrovamento del corpo. L’altro aspetto da scandagliare in maniera approfondita è la provenienza dei farmaci oppiacei con cui Andrea si è ucciso: nella stanza ne sono stati trovati diversi blister, alcuni dei quali vuoti.

Lo studente è stato definito un giovane apparentemente tranquillo e senza particolari problemi. Molto attento alla propria privacy, sia nella vita reale che in rete dove però aveva rapporti con diversi soggetti. In particolare con uno al quale aveva confidato problemi ed ansie.

Il ruolo dell’amico virtuale e l’istigazione al suicidio

Al suo «amico virtuale» – ritengono gli inquirenti – aveva chiesto consigli in merito alla scelta del mezzo più idoneo e più indolore per il suicidio, venendo più volte incitato e incoraggiato a farlo.

Le chat estrapolate dalla polizia hanno fornito elementi per dire che possa essere stato proprio il suo interlocutore a confortare la scelta dello studente di informatica di togliersi la vita mediante l’ingestione di farmaci (consigliando tra l’altro di farlo bevendo del vino), incoraggiandolo e rassicurandolo anche sul fatto che utilizzando gli oppiacei non avrebbe sentito dolore ma piacere.

L’ultimo ripensamento e le parole agghiaccianti della chat

A quel punto, Prospero, era riuscito ad acquistare il farmaco da un altro utente della chat, facendosi spedire il tutto in un punto di ritiro e giacenza pacchi. Alla fine di gennaio si era quindi recato presso l’appartamento preso in affitto, si è seduto davanti al computer ed è entrato nella stanza virtuale. Ed è su quella chat di Telegram che ha avuto un ripensamento che avrebbe potuto salvargli la vita.

All’amico on line aveva infatti confessato di non avere la forza di compiere il gesto, chiedendogli un ulteriore incoraggiamento. E lui, invece che distoglierlo, avrebbe fatto di tutto per fargli superare la paura. «Mangia tutte e sette le pasticche e basta», «ce la puoi fare». «Se vuoi ammazzarti ammazzati e zitto» alcuni dei passaggi agghiaccianti delle chat.

Sulle chat c’è anche quello che gli inquirenti definiscono un ulteriore particolare «drammatico e crudo». L’interlocutore dello studente, infatti, saputo che i farmaci erano stati assunti, anziché chiamare i soccorsi – hanno spiegato ancora gli inquirenti -, «si preoccupava soltanto dei possibili rischi di poter essere identificato, a seguito del ritrovamento del cellulare»

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