Alberto Trentini, detenuto da 123 giorni nel silenzio: la famiglia cerca risposte

L’operatore umanitario segregato in un carcere a Caracas

123 giorni di detenzione. Sono quelli di Alberto Trentini, 45 anni, operatore umanitario per la Humanity&Inclusion in isolamento, come riferito dall’ANSA, nel carcere El Rodeo I, alla periferia di Caracas. Alberto era arrivato il 17 ottobre per coordinare i lavori sul campo della Ong, arrestato poi il 15 novembre 2024 per conto del governo Maduro senza motivazioni ufficiali.

Ricorda molto quella di Cecilia Sala, la storia di un ragazzo venuto da lontano per tendere una mano e offrire il suo aiuto e la sua professione. Non solo Trentini, a onor del vero, ma anche altri otto italo-venezuelani detenuti in una delle carceri più dure della regione, tra cui ex deputati e dirigenti politici.

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L’ ultimo appello del ministro degli Esteri Antonio Tajani è stato al G7 in Quebec, dove ha chiesto esplicitamente al segretario di Stato USA Marco Rubio di fare tutto il possibile per ottenere la liberazione dei prigionieri politici italiani.

Non solo: è stato convocato di recente l’incaricato d’affari dell’Ambasciata del Venezuela a Roma per protestare energicamente contro la mancanza di informazioni sulla detenzione di Trentini.

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Le condizioni di Alberto Trentini nel carcere El Rodeo

Alberto Trentini, una manifestazione per chiederne il rilascio
Alberto Trentini, una manifestazione per chiederne il rilascio

Nulla di nuovo all’orizzonte, purtroppo, se consideriamo le condizioni in cui era detenuta anche Cecilia Sala nel carcere di Evin, in Iran.

Condizioni estreme e gestione brutale dei detenuti, in particolare di quelli considerati oppositori politici. La struttura de El Rodeo è sovraffollata, con celle concepite per poche persone che ospitano decine di prigionieri, costretti a vivere in ambienti insalubri, privi di acqua potabile e con scarsa ventilazione.

La carenza di cibo e medicinali è all’ordine del giorno, aspetto che aggrava ulteriormente la situazione del giovane che soffre di ipertensione, così come le torture inflitte sui detenuti e l’interruzione violenta delle comunicazioni con l’esterno.

Se in Iran esiste la tortura «bianca» sui prigionieri di cui è stata vittima anche Cecilia, a Caracas e in generale in Venezuela sono presenti anche strutture come «La Tumba», gestite dal Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional (SEBIN), dove vengono applicate forme di tortura psicologica simili alle pratiche iraniane.

In queste strutture i detenuti sono confinati in celle completamente bianche, senza finestre, con luci perennemente accese e temperature estremamente basse, causando privazione sensoriale e isolamento totale.

La famiglia dell’operatore umanitario ha preferito mantenere fino ad ora un profilo basso sulla vicenda, seguendo le indicazioni delle autorità italiane e dell’avvocato Alessandra Ballerini, la stessa che segue il caso di Giulio Regeni. Tuttavia, la madre di Alberto, Armanda, è intervenuta pubblicamente più volte esprimendo la sua preoccupazione per la mancanza di contatti con il figlio e chiedendo al governo italiano un intervento deciso per il suo rilascio.

Centoventitré giorni senza notizie

«Dal 15 novembre scorso, quando Alberto è partito, siamo nel silenzio. Interi giorni e infinite notti senza avere una notizia, io e mio marito siamo nell’angoscia» spiega «mio figlio era solito, durante ogni sua missione, mandarci un messaggio e la localizzazione del luogo in cui arrivava. Questa volta non abbiamo saputo niente. È un figlio speciale, siamo disperati. È speciale per tutto quello che ha fatto in questi anni, aiutando gli altri. Mi diceva sempre che la più grande soddisfazione era vedere il sorriso delle persone che aiutava, gente, i caminantes in fuga dal Venezuela che arrivavano da loro con le scarpe sbriciolate».

Alberto Trentini, il silenzio del governo venezuelano e il lavoro dell’Italia

Un caso che si inserisce in un contesto di relazioni tese tra Italia e Venezuela, aggravate dalla recente espulsione di tre diplomatici italiani da Caracas dopo il mancato riconoscimento da parte del governo italiano della rielezione di Maduro.

Un caso, unico e raro, in cui una persona è detenuta in un carcere straniero da quattro mesi senza poter avere nessun tipo di contatto con l’esterno, rassicurando anche per le sue condizioni di salute.

Si ipotizzano accuse di connessioni con organizzazioni straniere legate ad attività politiche e attivistiche, in particolare con una Ong danese come apparentemente accennato dal ministro dell’Interno venezuelano Diosdado Cabello, o di una critica aperta e diretta di Trentini al governo venezuelano. E se nessuna di queste ipotesi per ora è stata confermata ufficialmente, le uniche cose a cui attenersi – o aggrapparsi – in attesa di nuovi aggiornamenti rimangono il silenzio e la speranza.

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