La premier prova a rasserenare la coalizione dopo l’inciampo sul canone Rai in Senato
La parola d’ordine era, e resta, abbassare i toni. E ora pure minimizzare. Perché «l’inciampo» al Senato sul canone Rai diventa più grave di come già si era delineato nella notte tra lunedì e martedì, quando era diventato chiaro che margini di mediazione non c’erano. Non ci sono solo i partiti che segnano le loro differenze. C’è il governo che va sotto, offrendo il fianco agli attacchi a testa bassa delle opposizioni. Un incidente con queste dimensioni, insomma, si poteva e si doveva evitare.
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Lo aveva detto chiaro agli alleati Giorgia Meloni già nel vertice, tutt’altro che amichevole, di domenica sera, e lo avrebbe ribadito, più che irritata, dopo lo showdown sul canone Rai (in primis ad Antonio Tajani). Stiamo concentrati, non facciamoci male da soli, il messaggio della premier che immaginava di godersi la «vittoria» incassata a Bruxelles con Raffaele Fitto vicepresidente della commissione von der Leyen bis. E invece si è ritrovata alle prese con uno dei momenti più delicati da inizio legislatura.
Con il caos in Parlamento, con gli alleati pronti a rivendicare spazio («ma la regola è che valgono i pesi parlamentari, come avete sempre detto a noi» avrebbe rammentato ai suoi interlocutori). Abbassiamo i toni, ci sono troppi fronti aperti – ripetono anche nella maggioranza – e chi lo riassume lo fa con lo sguardo rivolto anche verso il Colle dove sembra esserci sempre meno voglia di fare sconti.
Perché nel caos che si è registrato nelle ultime 48 ore non è passato affatto inosservato l’intervento – definito irrituale da chi tra i parlamentari ha memoria storica dei rapporti tra i due palazzi – che ha fermato il blitz sui finanziamenti ai partiti attraverso il 2 per mille. Poi ci sono le divisioni interne, sempre più difficili da derubricare come normale dinamica di coalizione.
La legge di Bilancio e gli altri nodi
Anche perché alla Camera circola una certa preoccupazione per l’iter della legge di Bilancio che, di fatto, deve ancora incominciare. «Se queste sono le premesse…» allarga le braccia un parlamentare di lungo corso, la manovra non potrà che essere in salita. E difficilmente si riuscirà a rispettare il calendario che la vorrebbe in Aula a Montecitorio dal 13 dicembre. Dopo le «schermaglie» in Senato, come ha cercato di ridimensionare l’accaduto la premier, anche nel linguaggio utilizzato nei capannelli in Parlamento racconta di un clima caldo tra i partiti che sostengono il governo.
A usare la metafora della crisi mediorientale (se si fa la pace in Libano la faremo anche sulla Rai, è la sostanza), anche se con una battuta, peraltro è proprio lei. Che a caldo, appena successo il fattaccio in commissione, aveva fatto sapere attraverso «fonti» di Palazzo Chigi, che certe scene «non giovano a nessuno». Un cambio di passo, per il tempismo con cui è arrivata la strigliata. E anche un po’ un avvertimento, come lo hanno interpretato i diretti interessati. Adesso nessuno si sente di escludere che la vicenda del canone Rai, su cui la maggioranza si è plasticamente spaccata, sia finita così.
Nonostante questo fosse l’intento, come vorrebbe una delle letture della vicenda: lasciare consumare il fuoco in Parlamento e non parlarne più, come già accaduto ad esempio con il terzo mandato (sempre bandiera leghista). E anche se Antonio Tajani in pubblico e privato rivendica la libertà della sua posizione – non condizionata dai Berlusconi e dalle loro tv – c’è chi inizia a ricordare che già in passato accanto al canone era emersa la spinosa questione dei tetti pubblicitari per la Rai, finora non ritoccati, con annesso sospiro di sollievo di Mediaset. E la Lega, sul punto, ha già presentato un ddl ad hoc.