Tutti la vogliono a cominciare dalle Regioni rosse, ma non lo dicono. Le uniche a non averla ancora richiesta sono Abruzzo e Molise
Quando si parla di autonomia differenziata, a sinistra si viene aggrediti dall’orticaria, e giù maledizioni di ogni genere e profezie da fare impallidire il mitico indovino greco Calcante «profeta di sciagure». Pertanto, prima di avventurarsi in giudizi affrettati, sarebbe cosa buona e giusta capire come si è arrivati all’odierna proposta di autonomia differenziata a firma Calderoli.
Cominciamo col precisare che la Repubblica Italiana, già dall’entrata in vigore della Costituzione nel 1948, si presenta con un impianto istituzionale autonomistico e differenziato dal momento che con l’art. 116 vennero previste cinque regioni a statuto speciale che si differenziavano, appunto, dalle restanti quindici regioni a statuto ordinario.
Si può dire quindi che l’autonomia differenziata non è una invenzione della Lega e meno che mai di Calderoli. Invece, si può accusare la sinistra di avere alimentato le pretese autonomistiche in forza della riforma del titolo V della Costituzione, varata dal governo Amato nel 2001, nel tentativo, non riuscito, di strappare la Lega all’area del centrodestra.
Un tentativo cominciato 30 anni fa
Un tentativo cominciato già nel 1994 quando nel programma della «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto, già Segretario del PCI e fondatore del PdS (Partito democratico della Sinistra) si prevedeva e si prometteva una maggiore autonomia regionale per un’Italia «più giusta, più unita, più moderna». Il tentativo andò avanti col primo governo Prodi che ha visto nel suo ministro della Funzione Pubblica, Franco Bassanini, il più accanito fautore e il realizzatore della «devoluzione» alle regioni di maggiori poteri, «a Costituzione vigente», ci teneva a sottolineare, ponendo le basi della successiva modifica costituzionale.
Tralasciando l’elencazione delle materie assegnate, con quella riforma, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato e delle altre materie definite di «legislazione concorrente», per le quali spetta alle Regioni «la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato» (art. 117 Cost.), l’attenzione va rivolta all’art. 116.
Nel comma 3 del predetto articolo si offre la possibilità alle Regioni a statuto ordinario di chiedere allo Stato «Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» sulle materie a legislazione concorrente e su alcune materie a legislazione esclusiva dello Stato.
Apriti cielo! Ignorando tutte le iniziative intraprese dai suoi governi per dare attuazione al dettato costituzionale, la sinistra ha scatenato i propri profeti di sciagure che, nella legge Calderoli, vedono la fine dell’Unità d’Italia e la secessione delle regioni ricche a danno di quelle più povere e del Meridione.
L’esempio Sicilia
C’è anche chi paventa una sorta di fuga (compresa quella dei cervelli) verso le regioni alle quali verrebbero concesse condizioni di favore grazie all’autonomia differenziata. Eppure non dovrebbe sfuggire la capziosità del ragionamento, avulso dalla realtà storica. Ad esempio, la Sicilia che è ritenuta la regione a più ampia autonomia, in quasi ottant’anni di Statuto speciale, non ha mai visto alcuna invasione migratoria da parte di lombardi o veneti, costretti a vivere in regioni a statuto ordinario. Né è diventata più ricca grazie al proprio Statuto.
Sostenere che il Nord (con malizioso riferimento alla Lega) voglia svuotare il Sud, significa non avere letto la legge Calderoli ed il tentativo in essa contenuto di dare a tutte le regioni pari opportunità e la possibilità di utilizzare, come per le regioni speciali, le risorse finanziarie locali ed in particolare di utilizzare, almeno in parte, il cosiddetto residuo fiscale, la differenza, laddove si verifichi, tra l’intero prelievo fiscale e le minori spese per i territori e le popolazioni di riferimento. Per fare un esempio, la Lombardia ha un residuo fiscale di 54 miliardi l’anno che non può utilizzare in alcun modo.
Ad ogni buon conto, la pretesa strategia del Nord contro il Sud è platealmente smentita dal fatto che anche la Campania, la più popolosa regione del meridione, ha chiesto maggiore autonomia, e la Basilicata, la Calabria e la Puglia hanno avviato le procedure «preliminari». Senza la pretesa di attirare flussi migratori dal nord verso il sud, è più verosimile pensare che le regioni, al di là della posizione geografica, vogliano godere di uguali poteri e di pari opportunità.
Tutti insieme appassionatamente
Al momento solo due regioni (Abruzzo e Molise) non hanno ancora avviato un percorso per ottenere una maggiore autonomia. Anche il colore politico non ha impedito alle regioni rosse (oggi in fibrillazione) di chiedere maggiore autonomia. La prima a battere tutte le altre sul tempo, nel 2017, è stata la regione Emilia Romagna di Stefano Bonaccini, oggi pentito insieme alla sua ex vice Schlein e ai suoi colleghi di sinistra.
Tutti insieme appassionatamente, il presidente della Campania, il chiassoso Vincenzo De Luca, ed i presidenti di Emilia Romagna, Sardegna, Toscana e Puglia, minacciano di ricorrere alla Corte Costituzionale.
La presidente della Sardegna, Alessandra Todde, fa finta di non sapere che la sua regione gode di uno statuto speciale e pretende pure che alle regioni a statuto ordinario non vengano concessi maggiori poteri che le renderebbero un po’ simili alla sua Sardegna. Gelosia istituzionale?
Sembra paradossale ma, lungi dal frammentare ulteriormente l’Italia, l’Autonomia differenziata potrebbe avviare un processo di maggiore omogeneizzazione ed equità tra i territori della Penisola. E ciò in ragione del fatto che, dopo 23 anni dall’entrata in vigore della modifica del titolo V della Costituzione, il governo Meloni, a differenza di tutti i precedenti governi, ha deciso di porre mano a quanto previsto dalla lettera m) dell’art. 117: «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», denominati più semplicemente Lep.
È da questa previsione costituzionale che si è inteso partire prima di definire i maggiori poteri con le intese tra Stato e Regioni. Si tratta di un lavoro immane affidato al professore Sabino Cassese, uno dei più insigni giuristi d’Italia, che presiede l’apposita commissione incaricata di determinare i Lep. Non è azzardato sostenere che, alla fine del difficile percorso, l’Italia potrebbe uscire più unita e con meno diseguaglianze.
Nuccio Carrara
Già deputato e sottosegretario
alle riforme istituzionali