Lavorava in una «centrale telefonica» a Secondigliano, il padre sconta l’ergastolo per l’omicidio di Gelsomina Verde
Per Lucio De Lucia detto «Sasi» il giudice ha disposto i domiciliari. Secondo l’accusa aveva il ruolo di centralinista nell’ambito del gruppo specializzato in truffe agli anziani smantellato dai carabinieri di Roma con 17 arresti. Ma dall’inchiesta emerge una parentela pesante. Quello dei De Lucia è un nome che, a Secondigliano, incute timore. E Lucio, detto «Sasi» o «Salvatore», fa parte proprio della famiglia del Perrone. Suo nonno portava lo stesso nome e, all’anagrafe di camorra, era noto come «Capa ‘e chiuovo». Fu assassinato in piazza Zanardelli, a pochi passi da Cupa dell’Arco, nel 2007.
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Il killer di Gelsomina Verde e la latitanza
Suo padre è invece Ugo De Lucia, il killer di Gelsomina Verde, che per il delitto della 22enne sta scontando un ergastolo definitivo. Lucio detto «Sasi» era poco più di un bambino quando il padre fu arrestato dopo un periodo di latitanza a Poprad, in Slovacchia. A Secondigliano gli amici lo chiamavano “Ugariello”, i nemici “mostro”. Chi lo ha conosciuto (e poi è passato a collaborare con la giustizia, come Pietro Esposito) ne parlava come di «un tipo molto violento, uno che mette paura anche solo a vederlo».
Ugo De Lucia, nel 2004, veniva descritto dagli inquirenti come il killer a capo del braccio armato del clan Di Lauro, nonché fedelissimo del boss Cosimo, messo a gestire i traffici illeciti nella zona del Perrone. Sfuggì alla Notte delle manette, il 7 dicembre 2004 e cambiò più di un nascondiglio. Prima tra Scampia e Secondigliano. Sfiorò l’arresto e decise di migrare lontano, in Slovacchia. Scelse una piccola tranquilla cittadina. La sua latitanza terminò pochi mesi dopo in una fredda notte di fine febbraio, in un night. Era ritenuto l’assassino di Mina.
Il processo
Il giorno della sentenza la camera di consiglio durò un’intera mattina e si protrasse nel primo pomeriggio. Sotto un sole battente i familiari degli imputati attendevano davanti al portone di ingresso dell’aula bunker del carcere di Poggioreale. C’era tensione e attesa. Il verdetto che si aspettava era il primo della maxi-inchiesta sulla faida di Secondigliano.
Quando il giudice Scandone uscì dalla camera di consiglio e diede lettura del dispositivo c’era un silenzio irreale interrotto soltanto da sospiri e commenti a voci basse che facevano eco ad ogni nome e condanna pronunciata dal giudice. Qualcuno esultò, qualcun altro fece una smorfia col viso. Il giudice impiegò circa mezz’ora per leggere il dispositivo e la condanna all’ergastolo la pronunciò una sola volta. Il massimo della pena fu decretato per Ugo De Lucia. Fu condannato per l’omicidio di Gelsomina Verde, da solo. Quel verdetto sarebbe poi diventato definitivo.
Il racconto dei collaboratori di giustizia
Tuttavia la storia, negli anni, si è riaperta. A partire dai pentiti. A Pasquale Riccio, uno dei collaboratori di giustizia più recenti, fu chiesto del delitto Verde. «Nel periodo del 2011 in cui eravamo uniti nella cinque famiglie di Secondigliano, ho sentito più volte Antonio Mennetta proporre di far tornare la famiglia De Lucia nel Perrone, da dove era stata cacciata dagli Amato-Pagano – riferì il pentito – So che poi, nel 2012, sotto la Vanella, i De Lucia tornarono». Ma perché?
Mennetta aveva «un obbligo di riconoscenza verso Ugo De Lucia», tanto che «mandava a Ugo anche la mesata, credo 3mila euro al mese». Poi Riccio aggiunse: «Mennetta, quando si parlava di lui, aggiungeva sempre ‘è innocente, e se lo dico io, so che è innocente’. Quindi noi pensammo, secondo logica che deriva anche dai pagamenti, che avesse coperto responsabilità di Mennetta». Dai pentiti si è passati alle ordinanze, come quella che ha colpito il cugino di De Lucia, Luigi, e Pasquale Rinaldi «’O vichingo», nell’estate dello scorso anno.