Un dpcm può assumere forza di legge, e provocare una sorta di cancellazione della certezza del diritto e di conflittualità permanente
Lo stato di crisi in cui versa la democrazia si può misurare dal grado di tolleranza nei riguardi del dissenso. Queste problematiche, poste in essere nella loro complessa articolazione, durante il pericolo del covid in cui si mise mano, non sempre legittimamente, a porre in essere nuovi paradigmi, in cui un DPCM assumeva la forza di legge, che faceva promanare una sorta di cancellazione della certezza del diritto.
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Ed in questo ambito, tuttavia, Giorgio Agamben, filosofo valente di statura internazionale, incise profondamente nel dibattito, laddove rilevò che «… il primo fatto che vorrei sottoporre alla vostra attenzione, perché esso implica una mutazione radicale non solo del nostro rapporto con l’ordine giuridico, ma nel nostro stesso modo di vivere, perché si tratta di vivere in uno stato di illegalità normalizzata.
Al paradigma della legge si sostituisce quello di clausole e formule vaghe, come “stato di necessità”, “sicurezza”, “ordine pubblico”, che essendo in sé indeterminate hanno bisogno che qualcuno intervenga a determinarle. Noi non abbiamo più a che fare con una legge o con una costituzione, ma con una forza-di-legge fluttuante che può essere assunta, come vediamo oggi, da commissioni e individui, medici o esperti del tutto estranei all’ordinamento».
Da tale empasse giuridico non si è riusciti, a tutt’oggi, a venire pienamente fuori ove si consideri che ancora il rapporto tra la pubblica amministrazione ed il cittadino non si è potuto normalizzare e rimane ancorato ad una sorta di conflittualità latente.
Per poter intendere quale condizione si sta attraversando bisogna partire dalle definizioni da dare ai termini Stato e democrazia, ovvero ad autorità e partecipazione popolare alla cosa pubblica. Da qui l’intrigo che promana è quello che si concentra e non chiarisce di come sciogliere il nodo del «primato della legittimità» ed «a chi farlo appartenere».
Stati svuotati dei poteri
In un mondo che è divenuto una sorta di agglomerato informe in cui gli Stati appaiono svuotati dei poteri, perché i più sono forme assolutamente legittime di personalissimi protettorati l’individuo, nella sua corporeità e nella sua tendenziale esistenza, rimane impigliato in una condizione di mutismo ovvero di «voce clamans in deserto».
La premessa conduce ad una preliminare e prodromica comprensione che ci porta alla versione terribile e tragica, in cui chi la pensa diversamente rischia la fine di Navalny oggi, o Julian Assange domani. In questo caso l’uomo che chiede giustizia e vuole esprimersi liberamente trova il limite insuperabile che non può coltivare un pensiero-critico credibile. Ebbene in questo crinale bisognerà partire dall’idea di quale Stato costruire e su quali situazioni rilevanti poggiare le riforme, ovvero se ambire ad uno Stato governabile oppure mantenere in vita una sorta di «democrazia bloccata», in cui i singoli non possono avere voce in capitolo. Su questo punto le esperienze di Navalny ed Assange mettono a confronto due visioni del mondo e due sistemi che comunque, chi per un verso e chi per altro, negano la libera espressione delle idee.
Credo che in questo senso l’Occidente debba capire adesso, anche con la manifestazione di commemorazione di Navalny che si è tenuta a Roma, di come le istituzioni debbano essere riformate avendo un occhio di riguardo e di rispetto nei riguardi della libertà di pensiero e soffermarsi sulle occasioni di scelte, che devono possedere il ragionevole intento di aprire le istituzioni alla partecipazione dei cittadini, alle comunità dissenzienti, affinchè attraverso la partecipazione si possano rendere governabili le istanze che provengano dal basso e siano capaci di rendere le istituzioni a formulare scelte plausibili e concrete.
Una consapevolezza diffusa
Qui Giorgio Agamben ci aiuta a capire ed a costruire una consapevolezza diffusa utile, laddove evidenzia che «Qualcosa come un’altra politica sarà possibile solo a partire dalla consapevolezza che stato e amministrazione, costituzione e governo sono le due facce di una stessa realtà, che occorre mettere radicalmente in questione. Non esiste un potere che possa legittimare con leggi il suo esercizio, senza presupporre un ordine extragiuridico che lo fondi né può darsi una pura prassi amministrativa che pretenda di restare legale sulla base di decreti emanati in vista di una necessità. Si tratta, come lo stesso Schmitt suggerisce, di due diversi modi di rendere obbligatoria l’obbedienza».
«Come oggi vediamo con chiarezza, la verità di entrambi è, infatti, lo stato di eccezione. Che si agisca in nome della legge o in nome dell’amministrazione, in questione in ultima analisi sarà sempre l’esercizio sovrano di un monopolio sulla violenza. Ed è questo il kyros, il sovrano nascosto che, nelle parole di Aristotele, stringe insieme in un sistema le due facce visibili del potere statuale».
Chiarire questo passaggio storico che abbia pure una sua caratura morale è, adesso, essenziale affinché il dissenso ragionevole e la governabilità possano avere luogo attraverso il confronto fatto di parole e buona applicazione della grammatica (politica, istituzionale, giuridica) e non sia resa sterile da gesti fine a se stessi (come imbrattare le opere d’arte) o da proteste senza costrutto. Ebbene anche sul modo come esprimere il dissenso ci dovranno aiutare le esperienze di Navalny e Assange, che su mondi separati mettono in luce la crisi che attraversiamo, sia dal punto di vista culturale, morale, esistenziale ed istituzionale.