Il giurista Sabino Cassese, ha chiarito che «va nella direzione giusta ma ora bisogna fare attenzione»
Quando si mette mano ad una riforma si è subito portati alla critica, probabilmente anche a prescindere del contenuto. Intanto in quest’ultimo caso a presentare la bozza di riforma è stata il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
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E questo, prima di affrettare il corso e l’esposizione dei giudizi tecnico-costituzionali, genera una sorta di pregiudiziale avventatezza in quanti provano ad impancarsi a sapienti interpreti di quanto necessita la ridefinizione della Repubblica Italiana in termini di governabilità e di come mettere mano a quello stato di precarietà endogena delle continue fibrillazioni del sistema della «prima repubblica»; e poi indotta dai colpi di mano sovranazionali con la complicità dei cosiddetti tecnici (Monti, Draghi, …).
Ebbene dalle criticità, in qualche maniera, bisogna uscire, ma conviene avere ben presente quale sia l’intento fisiologico della proposta costituzionale. Ovviamente bisogna partire dal fine di rendere governabile l’impianto di governo e poi dal dare respiro e durevolezza ai governi che si assumono l’onere e la responsabilità dell’indirizzo politico con una compagine più coesa possibile.
In questo quadro, in attesa di apporti ulteriori, di negoziazioni portate avanti a fin di bene e di definizioni più puntuali, l’eventuale riforma della Costituzione, va detto da subito, non è uscita fuori come un coniglio dal cappello. Infatti è scaturita dopo un dibattito durato più di un anno e il lavoro di una commissione di esperti, in data 3 novembre 2023 il governo ha approvato il disegno di legge costituzionale sul premierato.
Il provvedimento
Il provvedimento, che aveva ricevuto il maggior consenso da parte delle forze politiche di maggioranza e di parte dell’opposizione (Italia Viva), delinea un sistema che attribuisce al primo ministro nuovi e più aggiornati poteri. E specificatamente si fa osservare che con l’articolo 1 viene abrogato il secondo comma dell’articolo 59 della Costituzione il quale prevede che il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico artistico e letterario.
Tale norma si ritiene opportuna in quanto l’attuale dettato costituzionale mortifica il principio dell’elezione dei parlamentari da parte dei cittadini; inoltre, talvolta, la nomina è stata influenzata dalle convinzioni ideologiche del Presidente della Repubblica e spesso ha dato luogo a fenomeni di prolungato assenteismo. L’art. 5, precisa, altresì, che fino al termine del loro mandato i senatori di diritto a vita, nominati ai sensi del previgente comma dell’art. 59 della Costituzione, restano in carica.
Si ritiene, al riguardo, che il termine del mandato debba intendersi il decesso e non la fine dell’attuale legislatura. Forse in questo caso la norma poteva essere formulata meglio. Viene fatta salva la nomina degli ex Presidenti della Repubblica, norma che garantisce il principio dell’imparzialità e che incide in modo non determinante sul potere deliberante del Senato.
Lo scioglimento del Parlamento
L’art. 2, poi, sopprime al primo comma dell’art. 88 le parole «o anche una sola di esse». Tale norma della Costituzione prevede che il Presidente possa sciogliere una sola Camera; infatti, per sintonizzare il dettato costituzionale alla riforma viene circoscritto il potere del Capo dello Stato nel senso di rendere possibile solo lo scioglimento contestuale di entrambe le camere.
Si osserva al riguardo, come già ritenuto da parte della dottrina anche nell’attuale ordinamento costituzionale, che lo scioglimento assumerà natura di atto complesso in quanto sarà necessaria l’iniziativa del primo ministro su deliberazione dell’organo collegiale. Anche in questo senso potrebbe esserci una limitazione delle prerogative del Presidente della Repubblica.
Il Presidente del Consiglio
L’art. 3, invece, modifica l’art. 92 della Costituzione e stabilisce che: «Il Governo della Repubblica è composto dal Presidente del Consiglio e dai Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri […]». Questa precisazione, che potrebbe sembrare pleonastica, in realtà attribuisce chiaramente un potere di direttiva al Premier che non è quindi considerato, come in precedenza, un primo inter pares.
La norma prosegue disponendo che «[…] il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni. Le votazioni per l’elezione del Presidente del Consiglio e delle Camere avvengono tramite un’unica scheda elettorale. La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che il premio assegnato su base nazionale garantisca ai candidati e alle liste collegati al Presidente del Consiglio dei Ministri il 55% di seggi. Il Presidente del Consiglio è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura […]».
Una maggiore stabilità
Viene, quindi, posto in essere un sistema maggioritario puro che garantisce una maggiore stabilità, ma non certo una rappresentatività come affermato nel testo dell’articolo che, quindi, a tale riguardo, costituisce una contraddizione in termini. Questo aspetto viene accentuato dalla mancanza di una soglia minima che garantisca il premio di maggioranza. Inoltre, la norma si pone in contrasto con la sentenza n. 35 del 2017 della Corte Costituzionale che aveva ripristinato per entrambi i rami del Parlamento una formula elettorale sostanzialmente omogenea di stampo proporzionale. Tuttavia, il Presidente del Consiglio ha precisato in conferenza stampa che la percentuale del premio di maggioranza potrebbe essere ritoccata nel corso dei lavori parlamentari e che, in luogo del turno unico, potrebbe essere previsto un doppio turno di votazione.
L’incarico di formare il Governo
Il terzo comma statuisce, poi, che «[…] Il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio dei Ministri eletto l’incarico di formare il Governo e nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, i Ministri […]». Si tratta di un potere formale del Capo dello Stato che certamente non potrebbe nominare un Presidente del Consiglio diverso da quello eletto dai cittadini e che, probabilmente, non potrebbe neanche modificare la proposta sulla nomina dei Ministri.
L’art. 4, invece, apporta delle modifiche all’art. 94 della Costituzione e stabilisce che «Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Nel caso in cui non venga approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche quest’ultimo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere […]». Si tratta di una previsione che si verificherà difficilmente considerata l’elevata percentuale del premio di maggioranza e che, comunque, conferma il ruolo centrale del Presidente del Consiglio.
Il secondo comma dell’art. 4 aggiunge un ulteriore comma all’art. 94 precisando che «[…] in caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio, il Presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare eletto in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha chiesto la fiducia alle Camere».
É questa la c.d. clausola «anti-ribaltone», che consentirebbe ai parlamentari di sostituire il capo del governo, senza però modificare la conformazione della maggioranza parlamentare per evitare cambi di maggioranza in corso di legislatura, anche mediante governi tecnici. A tal proposito si rileva che si potrebbero presentare problemi, come perimetrare la maggioranza in assenza di un voto di fiducia. E poi potrebbe essere violato il principio del divieto di mandato imperativo, previsto dall’art. 67 della Costituzione.
Le funzioni dei parlamentari
Tale principio, che nasce con la costituzione francese del 1791, prevede che i parlamentari esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato e rappresentano l’intera nazione e non gli eletti. Tale principio è presente nella quasi totalità degli ordinamenti democratici attuali, tranne gli Stati socialisti, in Portogallo, a Panama, in Bangladesh e in India è prevista una decadenza automatica per il parlamentare che cambia gruppo politico e non un vero e proprio mandato imperativo. Tuttavia, non si può disconoscere tale principio favorisce i cc.dd. trasformistici «cambi di casacca», cioè il passaggio in un altro gruppo parlamentare diverso da quello in cui sono stati eletti; nel corso della precedente legislatura ben 304 in relazione a 214 parlamentari.
Ecco che avviando l’esame partendo opportunamente dal testo e dal fine originario della stesura della proposta si perviene ad una serie di individuate criticità, da cui bisogna trarre osservazioni utili, tese a perfezionare il contenuto e le finalità, restituendogli un maggiore equilibrio e senza che le patologie frutto di furbizie, umane fin troppo umane, possano imporsi e prevalere sull’intento naturale della proposta.
Malgrado tutto un lucido studioso, non certo affetto da partigianerie di sorta, come Sabino Cassese, ha chiarito che «la riforma va nella direzione giusta ma ora bisogna fare attenzione».
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