Con “Le Supplici” di Euripide, il dolore insostenibile delle madri di scena a Patti

di Rino Nania

A Patti continua la rassegna di un cartellone teatrale raffinato, curato dal direttore artistico Tindaro Granata che introduce il pubblico nei classici greci o latini con elementi di contemporaneità e con un linguaggio teatrale affine ai temi che caratterizzano il contesto storico attuale.

Nell’ultima avventura si sono rappresentate le “Supplici”, opera di Euripide diretta da Serena Sinigaglia, che ha connotato l’ispirazione registica con una declinazione sceneggiata ed interpretata esclusivamente al femminile.

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Le Supplici di Euripide parte, per Serena Sinigaglia, dalla necessità di affrontare un discorso politico, di provare a riflettere sulla strada imboccata dalle democrazie occidentali ai nostri giorni. In questa tragedia si trova infatti un parallelismo potente con la nostra epoca nell’espansione imperialista di Atene che in quegli anni intraprende svariate missioni di pace – come le chiameremmo oggi – in tutto il Peloponneso: Euripide vuole portare l’attenzione sul paradosso di queste guerre che, al di là dell’esito spesso vittorioso, stanno devastando la città e la sua società con le sue relazioni umane ed ancestrali.

Qui le supplici, le madri dei figli che sono morti a Tebe e che vogliono recuperare i corpi per potergli dare degna sepoltura, incarnano questo paradosso: forzano Atene e Teseo ad avere giustizia tramite una nuova guerra, che genererà quindi nuovo dolore e nuove madri private dei loro figli. Come spiega la regista questo testo «incarna la profonda contraddizione dell’uomo che non riesce a darsi pace» e a questa contraddizione che sembra essere impossibile sradicare dall’essere umano non c’è soluzione.

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«L’unica risposta che sembra dare il testo – continua Serena Sinigaglia – è quella di Adrasto: si accetta di perdere. Ma è una risposta durissima e, se ci pensiamo, un concetto rivoluzionario perché se si accettasse di perdere semplicemente non ci sarebbe la guerra».

Ebbene nella lettura che si dà della guerra si ricava il significato che il “polemos”, in senso lato, appartiene ai vigliacchi e l’uomo, nella sua intimità, lo è e vive le contraddizioni di questa dimensione. Seguendo questa china è la coraggiosa dimensione femminile, qui ritratta nella figura della madre, che spinge alla guerra Teseo non del tutto convinto di dare ulteriore prova di sé.

Così non è certo per sua spontanea volontà che Atene entra nel conflitto ma solo per i riflessi intimi di un’anima umana comunque intrisa di un sentire bieco plasmato di passioni tristi che prevalgono su quelle gioiose.

Teseo, in una democrazia che vive le sue articolate ed istituzionali contraddizioni, nel concedere lo scettro al popolo che deve pronunciarsi e dare il consenso per la guerra, vive il percorso ardito di chi pretende un alibi ad agire bellicosamente che gli dovrebbe provenire dal consenso popolare. Si scorge in questo dialettico rapporto tra Istituzione e agorà un modo come un altro per coinvolgere il popolo al disastro attraverso un sistema formalmente democratico, in cui si possa giungere all’insegnamento per il quale l’educazione dovrebbe portare ad una partecipazione collettiva con cui fornire e/o ispirare, liberamente, qualche buona idea per la città. Ma non sempre è così.

Ne consegue che l’intera organizzazione dello Stato laddove pretenda di ispirarsi alla competenza, che si ottiene mediante studio, educazione e disciplina, non sempre riesce a coniugare il sentimento alle conformi procedure ove la maggioranza-partecipata è portata a decidere sulla guerra tra Stati e tra uomini, con il rischio di perdere il senso della Giustizia. Così questa stessa organizzazione se giustifica e motiva le scelte, nel momento in cui collide col senso del dolore evoca la disavventura dell’uomo che non è capace di sostenere il dolore, di sopportarlo fino in fondo.

Ed ancora una volta sono le madri a dover guidare la comunità nelle scelte, ovvero di rinunciare all’orgoglio di una potenza per scriminare il male dal bene e infondere nuova fiducia nel gesto di rinuncia alla guerra. Si afferma così il principio che non basta combattere, ma serve rassegnare al dolore il ruolo maieutico mediante cui poter acquisire piena consapevolezza che la dissoluzione dei valori e la scomparsa dell’equilibrio umanistico, specchio di un narcisismo ambizioso ma fragile, conducono al ritorno ai sentimenti veri e forti che affermano il bisogno di verità e del senso del limite, da cui l’uomo può e deve trarre giovamento.

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