Il fallimento di una politica sempre meno chic e sempre più logora
Di fronte alle crisi, che si attraversano, vi sono tante risposte possibili: 1) coglierle come opportunità mutando il pensiero sul contesto in cui si vive e orientandosi verso altri paradigmi; 2) indicare un modo per sfuggire ai morsi del fallimento; 3) oppure le crisi si affrontano a viso aperto senza se e senza ma, cercando di piegarle alla propria volontà.
Beh … di fronte a questo tempo terremotato le crisi rischiano di non essere mai viste ed interpretate come opportunità, ma solo definitivo declino. Vale a dire non si riesce ad uscire da queste condizioni permanenti ovvero non si riesce a trovare una soluzione che possa soddisfare le categorie volitive, produttive, innovative.
Ebbene di fronte a ciò la prima via che viene in mente è quella delle «utopie», vale a dire di momenti che possano aiutare a ridare speranza al pensiero che immagina un avvenire meno liquido e precario e soprattutto capace di dare linfa a nuove idee.
Certo quando la politica corrompe la trama della credibilità viviamo una fase, come dice Morselli, di una «Roma senza Papa», in cui la dimensione pubblica del potere si deve interfacciare non solo con la perdita di fascino del ruolo, ma deve fare anche i conti con una dimensione «impigrita, svuotata, con un che di depresso» che nega la speranza divenendo narrazione distopica.
Ecco che l’immaginare il futuro senza la possibilità di coltivare speranza spinge la discussione pubblica verso occasioni mancate e, col fondato sospetto, che tutto, da un momento all’altro, possa andare in malora. Così all’osservatore comune non rimane altro che immaginare il solito destino cinico e baro, pur assistendo alla necessità di dover approntare i mezzi e le competenze affinché si possa impersonare e/o incanalare una sorta di ‘socialidarietà’ per resistere ad una frantumazione dello stato di crisi, che rischia di disseminarsi in mille rivoli, moltiplicando le occasioni perse in una sorta di sfrenata dissoluzione. Malignamente si corre verso il disastro.
In questo quadro si avverte sempre più forte il diffuso concepimento di progetti tesi a rigide restaurazioni, con un forte connotato di corruzione, in cui le elités conducono la democrazia verso la tirannide e scompare la coesione sociale.
Così, nel clima di ormai perfetta confusione delle lingue dove non si comprendono le ragioni dell’abominevole persistenza di un tanfo di «fine», tutto può essere invocato e esecrato dove l’uomo, in quanto protagonista del proprio destino, si muove con imbarazzo e con una certa malcelata amarezza, finché la sua perplessità giunge al culmine, e anche ad una sorta di liberazione della mente, laddove il sistema di potere assume la rappresentata immagine di un uomo sempre più spento, isolato, che ama il silenzio che non deve essere disturbato dalle roboanti moltitudini, che si ribellano alle sevizie di un potere che li vuole sempre più poveri ed imbelli.
Nella sua ombrosa elusiva solitudine, il volto di Mario Draghi impersona la distanza del «palazzo» dalla realtà e soprattutto mette in luce che neanche un maggiordomo di riguardo può fungere come surrogato del padrone di casa. Draghi è quel papa scomparso da quella Roma, senza più ragione d’essere, ovverosia senza più spazio di vivibilità e soprattutto senza più essere interprete del suo tempo. Qui, in ciò, si scorge il fallimento di una politica sempre meno chic e sempre più logora.