Geopolitica: la NATO è un non senso

di Michele Rallo*

La Nato è figlia dalla paura

Non sono d’accordo con Michele Rallo, già parlamentare di An, esperto di Geopolitica e autore di diversi saggi sul tema. Sono, convinto, però, che tutte le opinioni, anche quelle che non si condividono meritino il massimo rispetto. E, quindi, ringraziandolo per avercela inviata, non ho alcuna remore a sottoporvela. (Mdc).

Torna sulla bocca di molti – in questi giorni di guerra all’est – l’insulso ritornello della necessità che l’Europa si doti di un esercito comune, per avere più voce in capitolo e per inserirsi con autorevolezza nel gioco delle grandi potenze continentali. Veramente, più che di un insulso ritornello si tratta di una colossale stupidaggine. Lo dico – beninteso – senza alcun intento offensivo, come semplice constatazione di natura tecnica.

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E vengo a spiegarmi. Primo: un esercito comune dei paesi dell’UE non può essere concepito se non come sviluppo successivo di una politica estera comune. Secondo: una politica estera comune non può essere neanche sognata in assenza di interessi comuni dei singoli paesi; interessi economici soprattutto, ma anche politici e/o geostrategici.

Proviamo ad immaginare – per esempio – che la Germania abbia interesse a far insediare la Turchia in Libia; e che l’Italia o la Francia, o la Spagna o la Grecia abbiano l’interesse opposto. Ebbene, come dovrebbe agire – all’atto pratico – un’ipotetica politica estera comune dell’Unione Europea? Favorendo l’insediamento dei turchi a Tripoli, come converrebbe ipoteticamente a Berlino? o avversandola risolutamente, come converrebbe a Roma o a Parigi?

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E se risultasse impossibile – come nel caso ipotizzato – mettere a punto una linea diplomatica comune, come si potrebbe immaginare la presenza di una forza militare comune che dovrebbe sostenere (eventualmente anche con le armi) una tale inesistente linea diplomatica?

Ecco perché una cosa sono gli slogan vuoti e pasticcioni, e cosa completamente diversa è l’azione politica seria, concreta, basata sulla realtà e non sulle elucubrazioni di chi vive di sogni o di incubi. Ed ecco perché, al di là della politica estera, l’Unione Europea è destinata ad implodere: perché, alla lunga, saremo costretti a prendere atto della impossibilità di adottare anche una politica economica e sociale comune. Ma di questo si parlerà in altra occasione.

Dunque – e torno all’argomento – preso atto che le scelte di politica estera sono propedeutiche all’adozione di una politica militare comune, proviamo ad allargare il discorso a un campo più vasto, quello di un’Alleanza Atlantica “occidentale” che rappresenti insieme Stati Uniti e Inghilterra da una parte, ed Europa (con o senza la sovrastruttura UE) dall’altra.

Quando venne fondata la NATO i paesi dell’Europa Occidentale avevano tutti un interesse di natura politico-militare che li univa tra loro e con gli Stati Uniti d’America. Lo ricordavo otto anni fa su sulle pagine del settimanale “Social”: «Quando, nel lontano 1949, i paesi del Nord America e dell’Europa Occidentale sottoscrissero il Patto Atlantico, questo rispondeva ad una logica ben precisa: creare un’alleanza militare difensiva per dissuadere l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche dalla tentazione di invadere uno o più Paesi europei. Nacque così la NATO (Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico), struttura militare oggettivamente egemonizzata dagli Stati Uniti: i soci minori – tra cui l’Italia – lo sapevano perfettamente, ma accettavano questa diminutio a fronte dell’indubbio vantaggio di poter contare su una formidabile struttura di difesa comune. All’epoca – non v’è dubbio – l’Unione Sovietica rappresentava una minaccia concreta: era guidata dal forte braccio di Stalin, poteva contare su un’alleanza militare che riuniva le nazioni dell’Europa Orientale (poi consacrata nel Patto di Varsavia) e si giovava della solidarietà di forti partiti comunisti, soprattutto in Italia e in Francia»

Diciamocelo chiaramente: la NATO nasceva perché l’Europa aveva paura. Paura della guerra, paura dell’invasione, paura della rivoluzione, paura che i comunisti prendessero il potere ed instaurassero dei regimi similsovietici.

Poi, quarant’anni più tardi, tutto è cambiato: finito il comunismo sovietico, finita l’URSS, sciolto il Patto di Varsavia, liberati i popoli soggiogati e caduto il muro di Berlino, i partiti comunisti dell’Occidente diventati socialdemocratici e schierati addirittura a difesa delle esigenze dei “mercati” e dell’alta finanza.

Era finita perciò la paura, ed era quindi svanito l’unico collante che aveva tenuto insieme i soci atlantici. Sarebbe stato logico sciogliere la NATO allora o, quanto meno, rivederne completamente la funzione. La Russia, infatti, non era più una minaccia per l’Europa, neanche per l’Europa Orientale. Europa Orientale che peraltro – non va dimenticato – le era stata regalata dagli americani nel 1945, a Jalta. Allora Churchill riuscì a stento a salvare la Grecia. Ma questa – come suol dirsi – è un’altra storia.

Qualcuno storcerà il naso di fronte all’affermazione che la Russia non fosse più una minaccia per l’Europa. Ma è proprio così. La Russia non ha più minacciato nessuno. L’unica sua forma di pressione militare – fino alla vigilia dell’invasione dell’Ukraina – è stata quella di difendere dalla pulizia etnica i russi residenti nei paesi confinanti: nel 2008 quelli dell’Abcazia e dell’Ossezia del Sud, bombardati dalla Georgia; e dal 2014 ad oggi quelli del Donbass, oggetto di una sanguinosa aggressione da parte dell’Ukraina.

Per inciso, dirò che in Donbass è stata combattuta una guerra vera e propria, mossa dal governo ukraino con lo scopo di cancellare le due piccole repubbliche che reclamavano l’autonomia. Una guerra di cui in Italia nessuno ha parlato, né giornali, né televisioni, né talk-show, né reportage strappalacrime, né richiami ai valori dell’Europa di Mattarella, né lamentazioni di Bergoglio, né niente di niente. Eppure, si è trattato di una guerra-guerra, con carriarmati, bombardamenti, rastrellamenti, oltre ad episodi di ferocia individuali e collettivi (come la strage di Odessa). Una guerra-guerra il cui bilancio ufficiale (sottostimato) è di 13.000 morti, 34.000 feriti, un milione e mezzo di profughi, oltre a danni incalcolabili in due vaste regioni.

1 – Continua

Michele Rallo
già parlamentaredi An, esperto di Geopolitica
autore di diversi saggi sul tema

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