Già nel 1881, il destino dello Stato parlamentare veniva affidato alle competenze tecniche, capaci di restringere e soverchiare il politico
Vi sono pietre miliari nel panorama letterario e saggistico che definiscono fenomeni e qualificano dinamiche di cui non si può fare a meno nell’osservare la realtà che si vive nelle relazioni con le pubbliche amministrazioni e dentro i gangli dello Stato.
Un’opera che di questi tempi andrebbe riproposta è un testo di Marco Minghetti, nobile e austera figura della Destra Storica, di quella aristocrazia di uomini politici che governò l’Italia dall’unificazione fino al marzo del 1876. Se soffermiamo la nostra attenzione sulla data di pubblicazione potremmo immaginare che si tratta di qualcosa fuori contesto e soprattutto non proiettabile, come sapere, come dato utile per il futiribile.
Eppure non è così.
Si sofferma questa domenica su «Il sole 24 ore» il giurista ed accademico dei Lincei Natalino Irti che individua lo studio di Minghetti come un momento classicheggiante riproponibile anche nella contemporanea visione politica.
Difatti Irti considera “il libro, edito dal bolognese Zanichelli (e anche ristampato, per iniziativa e prefazione dell’autore di questo articolo, nel 1992), come un necessario passaggio che non svolge una critica della democrazia rappresentativa, ma nasce dalla schietta fiducia del Minghetti nel governo parlamentare, che «è sempre un governo dei partiti». Dei partiti, in cui un idem de republica sentire raccoglie uomini di diversa formazione e origine sociale e attitudine professionale. Quell’idem sentire garantisce, o dovrebbe garantire, unità e continuità di indirizzo politico, sicché il Minghetti, facendo propria un’opinione di Cesare Balbo, si dichiara anch’egli «nemico a quei centri, mezzi centri, centri destri, centri sinistri, quasi rosa di venti e di tempeste: nemicissimo a quelli che si dicono indipendenti, e che si destreggiano fra l’una parte e l’altra senza convincimento di sorta alcuna”.
Ma il tratto più interessante su cui si sofferma Irti è quando Minghetti conclude: «la giustizia di partito e l’amministrazione di partito sono la negazione dell’essenza e dello scopo medesimo dello Stato. L’ufficio dello Stato è di sottoporre l’interesse di ogni cittadino e di ogni classe all’interesse pubblico, il governo di partito inverte la gerarchia e sottopone l’interesse pubblico ai suoi propri interessi…».
Corre, così attraverso Irti, nelle pagine di Minghetti, un interrogativo fondamentale che egli vorrebbe quasi reprimere nel silenzio dell’animo: se codeste ‘ingerenze’ e difetti e limiti non tocchino la stessa validità del sistema parlamentare, e non suscitino il desiderio o la speranza di un diverso regime politico.
La dolorosa perplessità è superata dal Minghetti, non soltanto mediante studio di appositi ‘rimedi’, che garantiscano indipendenza della magistratura e imparzialità dell’Amministrazione, ma anche con l’acuta considerazione: «la tendenza scientifica del nostro tempo produce l’effetto di introdurre l’elemento tecnico in ogni parte della cosa pubblica; e l’elemento tecnico è il contrapposto dell’elemento politico, e quanto più quello prevarrà tanto più questo restringerà la sua efficacia… Ad ogni modo è da credere che nell’avvenire non sarà possibile chiamare al ministero di agricoltura un maestro di musica, e a quello di marina un avvocato».
È davvero singolare, conclude Irti, che, già nel 1881, il destino dello Stato parlamentare venga affidato alle competenze tecniche, capaci di restringere e soverchiare l'”elemento politico”. Che è, apparente soluzione, poiché i tecnici, saliti al governo, sono chiamati, da un lato, a prendere decisioni su casi ‘non tecnici’, e, dall’altro, a elaborare ed esprimere un ‘indirizzo generale della politica’.
E così si torna a dimostrare un dato incontrovertibile ovvero che dalla politica mai si può uscire; che l’anti-politica è, anch’essa, una politica; e che il governo dei partiti, se non vuole lasciare il campo a regimi tecnocratici o autoritari, deve guardarsi dalle nefaste ‘ingerenze’ nella giustizia e nell’amministrazione.
Delusione e sfiducia dei cittadini, abbracciando in sommaria condanna tutte le istituzioni, si volge altrimenti agli irrazionali miti, da cui già il secolo ventesimo fu sedotto e devastato. Il saggio di Minghetti, classico del liberalismo e da rileggere a modo di breviario, impartisce una lezione di moralità pubblica e di saggezza politica. Che è così riassumibile: le ‘ingerenze’ aprono la strada del declino, del torbido agitarsi di individui e gruppi, di quell’interiore malessere, che spinge o al solitario ritrarsi dalla cosa pubblica o all’abbandono nel fascino dell’irrazionalità.
Ebbene è un testo da rileggere attraverso attraverso le lenti di Natalino Irti, che attualizza un fenomeno (le ingerenze inappropriate) qualificandolo, criticandolo, dandogli una prospettiva risolutiva. Ebbene la necessità che rileva è quella di porre un limite alle interferenze in ogni ambito, da quello locale a quello statale, perché si possa garantire equilibrio senza che la politica possa configurare forme di appropriazione indebita. Ovvero che gli interessi pubblici possano perseguirsi in momento nefasto di gestione privatistica.