Considerazioni di un vinto. Elezioni a Napoli tra civismo e disincanto

di Max De Francesco*

Siamo pronti a un altro giro da vinti in una Napoli che non si scalda neanche un po’ per l’elezione del sindaco dopo Covid, dopo Dema, dopo tutto. La corsa alla poltrona della città più indebitata d’Italia serve essenzialmente a sperimentare nuovi virus similpolitici, confermare narcisismi, fingere conflitti tra le élites partenopee che, come scrisse il mirabile Aldo Masullo, «occupano il vertice che regge e governa, mai unico, fatto piuttosto di cento prepotenze separate ma sempre convergenti nel sopraffare i mille e mille minuti interessi».

Questa volta convergeranno o nell’aula magna dell’ex ministro Gaetano Manfredi, candidato più grillino che piddino, anzi più ‘contino’ che piddino, o nell’aula bunker di Catello Maresca, un altro magistrato folgorato sulla via di Palazzo San Giacomo, che tiene a rimarcare, un giorno sì e l’altro pure, la sua ‘civicità’, il suo ‘civismo’, la sua carica ‘civica’, fate un po’ voi.

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L’accademico e il togato, dei quali nessuno mette in dubbio onestà e autorevolezza, se la giocheranno contendendosi una bella fetta dello stesso elettorato, in cui convergono consueti familismi, logiche spartitorie, automatismi di potere, imprenditoria affamata d’appalti, indignati cronici, questuanti culturali, cattedratici del nulla, chierici dell’immobilismo e, inevitabilmente, parte di quella borghesia ammalata di apatia, propensa, stando a una delle tante stoccate del procuratore Giovanni Melillo, alla «pulsione eversiva quando è chiamata a dirigere» e alla corruzione perché «moltiplica le opportunità».

Se il canovaccio del centrosinistra – o meglio del centro5stelle – era prevedibile, in linea con candidature pacate, gradite al nuovo corso democristiano del ticket Di Maio-Conte, che senza alcun pentimento è passato dal vaffa all’Atto di dolore, ci si augurava dal centrodestra un competitor non così ‘civico’, con una marcata connotazione politica.

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Ci si aspettava un conoscitore profondo della storia di Napoli, capace di risvegliare identità assopite e necessari orgogli, che potesse sentirsi di centrodestra senza soggezione né comunicati stampa “riparatori”, che potesse raccontare quanto bene possa fare alla città una luce conservatrice dopo l’abbaglio progressista, che sapesse avvicinarsi ai napoletani che non vota con la chiarezza di un colore e non con la tinta annacquata d’un civismo calcolato, mood di una politica defunta, appiattita sull’algoritmo dell’antipolitica che non ha certo arricchito la tavola dei contenuti né prodotto visioni di lunga gittata.

A nulla è servita, poi, l’esperienza della doppia sconfitta negli ultimi due lustri dell’imprenditore scugnizzo Gianni Lettieri, candidato civico, anche se più vicino ai partiti del centrodestra, di cui va ricordato il solido programma presentato per il rilancio della città che, rileggendolo oggi, alimenta il rimpianto dopo la sciagura arancione.

L’idea di una legge speciale ‘Salva Napoli’ fu lanciata proprio da Lettieri che si ritrovò contro i molossi della sinistra, gli stessi che adesso la invocano come disperata soluzione per risanare Partenope.

Se è vero che Napoli s’è prestata come cavia all’inaugurazione del primo laboratorio del cocktail PPC (Pentastellati-Piddini-Contini) per ufficializzare la guarnizione politica dell’avocado del popolo, è altrettanto vero che la destra avrebbe potuto orientarsi verso una candidatura apertamente identitaria, evocativa, popolare, ricompattante chi rosso non è, soprattutto in una città che la sinistra governa, senza pausa e senza scuorno, dal 1975, data di elezione del comunista Maurizio Valenzi.

L’opzione Maresca alla fine sembra aver prevalso (anche se la Meloni tiene ancora in piedi il nome di Sergio Rastrelli, figlio del gentiluomo Antonio, una delle bandiere della Fiamma) sia perché in sintonia con lo schema diffuso dei candidati oltre i partiti e ‘civici’ come i numeri dei palazzi, sia per l’incapacità del centrodestra napoletano di saper tracciare, dopo tanti insuccessi, una via alternativa e coraggiosa per la vittoria o per una costruttiva sconfitta.

Essere un candidato neutro infiamma la platea? Il giudice civico ha qualche residua possibilità di farcela se riuscirà a riportare alle urne l’elettorato muto e disincantato. Un dato: l’ultimo sindaco della città è stato proclamato con meno di 200mila voti, in una comunità che ne conta quasi un milione.

Se al momento Manfredi e Maresca hanno duettato sulle rispettive passioni calcistiche in una città umiliata dalla dittatura dei disservizi e dal disfacimento del suo corpo antico – la Galleria Vittoria è la sintesi transennata dell’agonia partenopea -, qualche rapida considerazione sugli altri gareggianti.

Lasciata sola da de Magistris, ormai in Calabria senza più alibi nella manica e in cerca di nuova agibilità politica, Alessandra Clemente è la candidata della movida arancione. Più che tavoli di discussione è concentrata nell’apertura di tavolini. È da ammirare perché è nel ciclone di una diaspora: i Dema sono ormai in caotica fuga e a lei non resta che continuare a non dire nulla, infilando qua e là la tenerezza di un sorriso.

Sergio D’Angelo con la sua ‘Napoli coraggiosa’ è azione di disturbo a tempo determinato. Il compagno Antonio Bassolino è in campo per pura rivalsa personale, sussulto vitale per il suo egotismo. Sentirlo parlare di periferie, di Bagnoli, di giovani fa rabbrividire, pensando che per quasi un ventennio è stato supremo manovratore di clientele con tanta pecunia pubblica in tempi in cui la crisi economica era lontana, umiliando la qualità della spesa, il buon senso e chi ne combatteva lo sfrenato potere.

Ogni volta che appare e apre il registro delle sue memorie, un’immagine ci gira in testa: la coda tagliata di una lucertola che non smette di sbattersi benché mozzata dal resto del corpo.  Comunque vada, abbiamo già perso. Ancora una volta vinti e stanchi con i nostri pezzi scritti a fatica in una città disgregata che ha a cuore solo il prossimo calcio mercato.

Max De Francesco
www.maxdefrancesco.it

 

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