La “grande ammucchiata” traballa! E come sempre tra coprifuoco (ripudiato anche dal Cts, perché «è una decisione tutta politica») e domiciliari per tutti, a pagare saranno italiani ed imprese.
Pur traballando, però, il Cdm ha dato il via libera: al decreto per le Riaperture; al Def; ai 40 miliardi di scostamento di bilancio. Ma ci è voluto il consenso dell’Ue arrivato in extremis per dare il via libero Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza, per poter attingere alle risorse europee del New Generation Eu.
Un pacchetto d’interventi – per 221,5 miliardi di cui: 191,5 dal Recovery e 30 in deficit – che ci indebiterà, ma – a sentire lorsignori – ci consentirà di uscire dalla crisi economica generata dalla pandemia, nella maniera migliore possibile, che domani e martedì, sarà illustrato alle Camere, che – per la ristrettezza dei tempi a disposizione – non avranno la possibilità di apportarvi alcuna variazione. Dovrebbe, infatti, essere presentato a Bruxelles entro venerdì prossimo.
Da tempo Draghi sottolinea l’importanza del «debito buono», come strumento di sviluppo. Naturalmente, però, perché sia tale e dia i frutti sperati è necessario che le risorse relative vengano investite bene. Non cioè, a sostegno di elemosine e mancette, ma in progetti “visionari”, affidati per la realizzazione ad una governance diretta delle strutture operative coinvolte: ministeri, enti locali e territoriali. Sperando che riescano laddove spesso – per non dire, sempre – hanno fallito.
Ma c’è qualcosa che non quadra del tutto, anche per quanto attiene il Mezzogiorno. «Non è vero – ha assicurato la ministra Carfagna – che se al Sud andrà il 40% (circa 82 miliardi) del totale dei fondi Recovery è perché il Pnrr ha assorbito i 21 miliardi del Fondo di Sviluppo e Coesione, che li anticiperà, ma li riavrà via via che arriveranno i finanziamenti da Bruxelles e chi dice il contrario o è disinformato o in malafede».
E se, invece, chi lo sostiene fosse soltanto qualcuno che si è stancato di credere a quella befana che, da 160 anni a questa parte – e soprattutto, dalla fine del cosiddetto “miracolo italiano” degli anni settanta ad oggi – continua a promettere al Sud investimenti faraonici per crescere e poi – con la complicità di politici e meridionali in cerca di un posto al sole del Nord “facoltoso” – ha continuato a rifilargli soltanto spiccioli per aiutarlo a sopravvivere e soggiogarlo?
Al di là, però, dell’effettiva quantità di risorse messe a sua disposizione, c’è un’altra ragione che rischia di lasciare fuori dalla “ripresa” il Mezzogiorno. Per averne consapevolezza basta tener conto che l’asse portante dell’economia reale meridionale è costituita soprattutto da piccole e medie imprese, prive della dimensionalità necessaria a realizzare interventi di grossa portata e doversi, pertanto rassegnare ad accontentarsi di lavoretti in subappalto.
Basta pensare che tutte le ricerche effettuate già prima dello scoppio della pandemia, sulla capacità delle regioni di trattenere al proprio interno almeno il 50 per cento delle risorse investite, anche sul proprio territorio, hanno sempre confermato che, indifferentemente della localizzazione effettiva (al Nord o al Sud era sempre la stessa cosa) dell’investimento, la stragrande maggioranza delle risorse andava ad innaffiare copiosamente il Centronord e solo qualche goccia riusciva a scivolare fino al Sud.
Da qui, l’esigenza che le forze produttive del Sud: imprese artigianali ed industriali, professionali, commerciali e sindacali, realizzino fra loro, patti e consorzi territoriali utili a consentirgli una dimensionalità tale di evitare che questa sorta di situazione di quasi minorità continui a favorire il Nord, a tutto danno del Sud.
Sarà capace – almeno per una volta – il Mezzogiorno di dimostrarsi comunità coesa, e non realtà di separati in casa, per fronteggiare questa esigenza di unità e partecipare da protagonista, anziché da “spalla”, alla crescita del propria terra? Non è facile, ma bisogna farlo. E in fretta, altrimenti, poi, sarà inutile piangere sul latte versato.