Il caso Meloni, quando il giornalista è un hater (e il mainstream tace)

«Il Conte 1 è morto, il Conte 2 è morto e anche io non mi sento tanto bene».

Deve essere stato questo il comune sentire diffuso nella maggioranza parlamentare/minoranza nel Paese, all’avvento di un salvifico e quasi metafisico Mario Draghi, chiamato dal Presidente Mattarella ad assurgere al (tecnicissimo) ruolo di curatore fallimentare di una legislatura oramai in conclamato dissesto politico, e nonostante fosse ampliamente previsto/prevedibile, l’effetto Draghi ha sparigliato carte ed infranto schemi, specie e anzitutto quelli narrativi e comunicativi, disvelando e rivelando posizionamenti, strategie o pseudo tali e talvolta accendendo la scintilla del caos; e l’unico vero dato sin qui tangibile riguarda la morfologia parlamentare: l’unico partito saldamente e coerentemente rimasto all’opposizione, lì dov’era, fermo ed immutabile dall’insediamento del Parlamento in carica, è la pattuglia dei parlamentari di Fratelli d’Italia: tutti gli altri schieramenti sono di fatto attualmente agglomerati non miscibili in un unico indefinibile insieme: quello che con opposte motivazioni dichiara di voler sostenere il Governo Draghi.

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Evidenziando così l’unica e vera linea di fermezza, chiarezza, coerenza, l’unico punto fermo in un mare in tempesta: la linea di Fratelli d’Italia, la linea di Giorgia Meloni.  E la coerenza, si sa, è un agente patogeno per moltissimi commentatori, specie quando essa accresce il consenso dell’avversario politico. E l’origine di ogni sproloquio è da ricercare lì: nella frustrazione generata dal contrappasso di una politica limpida, lineare, invidiabile.

Di pessime pagine di giornalismo ne abbiamo lette tante, del resto la purezza dell’editoria è un miraggio e l’onestà intellettuale è una chimera, ma ciò non significa che gli italiani e le italiane vi si debbano necessariamente abituare, né che intendano accettare la totale perdita di deontologia e scivolamento dell’etica in un fangoso pantano.

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E dunque dov’è l’Ordine dei giornalisti? Dove sono i provvedimenti disciplinari? E non mi chiedo dove sia l’indignazione delle (desaparecidos) femminilissime femministe italiane perché so che l’indignazione per molte di esse o è di parte o non è.

Ma proprio in quanto donna, prima che da collaboratrice di un Gruppo parlamentare che da anni conduce in Parlamento le più rilevanti battaglie per la difesa di valori della vita e della dignità femminile (dalle battaglie contro la barbara pratica della maternità surrogata, ad esempio, la cui promozione pubblicitaria da parte di cliniche straniere oggi è tranquillamente tollerata sebbene nel nostro Paese sia illegale, come se l’utero fosse un qualunque bene di consumo, alla difesa delle donne dai rischi connessi alla «liberalizzazione» della pratica abortiva, come se l’aborto fosse un affare da poco da disbrigare entro poche ore in qualunque bagno domestico: null’altro che pratiche commerciali, mascherate da battaglie per l’emancipazione femminile), non posso che evidenziare che lo squallido commento intriso d’odio che ieri è stato vomitato addosso a Giorgia Meloni deve essere un campanello d’allarme: il lessico obbrobrioso e abominevole utilizzato non è una novità nel dibattito pubblico italiano, finanche nella comunità scientifica e conseguentemente, nei pareri scientifico-legali posti alla base di rilevanti decisioni politiche (ad esempio quella recente relativa alla pillola RU486).

Definire un bambino un «prodotto», come ha fatto l’ineffabile Mattioli, è un fatto inammissibile, ma molto più frequente di quel che si pensi: la documentazione scientifica posta alla base della decisione vagliata dalle autorità sanitarie sulla pillola abortiva è altrettanto abominevole: si legge nero su bianco di «espulsione del prodotto del concepimento» o del «materiale abortivo».

Le parole sono sostanza e la china in cui stiamo pericolosamente scivolando è talmente incrinata da richiedere attenzione e interventi realmente atti a tutelare donne e bambini.

E per evitare tale abbrutimento non bastano né le scuse del direttore de ‘La Stampa’ (che nonostante tutto definisce il pezzo un «pur ottimo articolo»… immaginiamo dunque cosa avremmo potuto leggere se fosse stato «un brutto pezzo!») né quelle dell’autore dell’articolo, anche perché palesemente inautentiche e volte a distogliere l’attenzione o minimizzare il senso di parole assolutamente inequivocabili per qualunque persona pensante, che impongono nel caso di specie ben altri interventi (sempre che un’etica professionale nel giornalismo italiano esista ancora) e nell’agenda di Governo, un repentino e deciso cambio di passo sulla questione bioetica e sulla tutela della tutela delle donne, della dignità e della vita umana.

Setaro

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