Quello che si è sostanziato in Calabria è il più evidente dei paradossi costituzionali degli ultimi tempi. Che in Calabria l’emergenza sia nell’emergenza, questo è fatto oramai notorio: inaccettabile, ma notorio.
E oltre la toppa peggiore del buco, in una deplorevole successione di nomine ad andamento inesorabilmente discendente e deteriorante, è di fatto sancito, in questo «paradosso calabrese», il fallimento della sussidiarietà verticale, quel principio fondamentale di regolazione dei rapporti tra le varie entità costitutive della Repubblica che nel nostro ordinamento costituzionale avrebbe dovuto configurare un presidio di garanzia a sugello della responsabilità politica e amministrativa: quella responsabilità politica intrisa di statalismo, integrità morale, leale collaborazione istituzionale, onestà intellettuale e abilità di sintesi e mediazione politica, venuta progressivamente a mancare e messa a nudo in tutta la sua carenza e debolezza da una crisi inaspettata e senza precedenti.
L’indecoroso e tragico spettacolo calabrese, al quale l’Italia afflitta e affranta dal Covid, sconvolta e sbigottita assiste in questi giorni, non solo ha dell’indecente, ma rischia, senza esagerazioni, di scatenare il panico tra i cittadini, non meno delle dichiarazioni di Boris Johnson in Inghilterra nella fase iniziale della pandemia («prepariamoci a veder morire i nostri cari»), generando turbamento, sgomento e paura, sino a divenire elemento potenzialmente dirompente per la tenuta di quell’equazione democratica perfettamente cristallizzata nell’articolo 114 della Costituzione: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato».
Ma oltre alle implicazioni istituzionali, soffermandosi sul piano strettamente politico e guardando solo alla punta di questo iceberg fatto di ghiaccio e indolenza, verrebbe da chiedersi cosa hanno fatto i calabresi di male a Liberi e Uguali, perché ancora tutti noi, calabresi, abbiamo chiara e nitida memoria della indegna vicenda (a firma Boldrini) della discriminazione di 70 eccellenti giovanissimi musicisti calabresi, cui fu imposto un vero e proprio Daspo a Montecitorio, infangandone integrità morale e prospettive di riscatto sociale.
E oggi dallo stesso quartier generale di Liberi e Uguali un nuovo insulto all’intelligenza, e al contempo, un nuovo assalto alla diligenza. E così, con agghiacciante, disumana e calcolatrice freddezza, con assoluto scollamento dalla realtà, ma con lucido, responsabile e colpevole cinismo, una posizione cruciale per la gestione responsabile di una crisi senza precedenti diviene null’altro che un forsennato gioco di potere.
Ma chiaramente tutto è consentito, mai ammettere un errore, piuttosto ridimensionare, ridimensionare, ridimensionare. E così il Ministro della Salute all’indomani dal putiferio di cui lui stesso è corresponsabile, in difesa del suo operato e della sua responsabilità, dichiara in modo cristallino e lampante che «trent’anni di carriera non possono essere cancellati da un’audio rubato». Ed ecco qui un altro ribaltamento, (ad uso e consumo della necessità e del momento), delle regole del gioco.
In una democrazia in salute, chi esercita una funzione di rappresentanza politica fonde, e non separa, la propria vita privata con quella pubblica: le due dimensioni diventano un tutt’uno e vanno insieme solidalmente, in una dimensione integrata; parallelamente, la sfera privata del cittadino è e resta sacra e inviolabile, e lo Stato non entra in casa del cittadino.
Ma in questo momento storico così surreale, assistiamo al totale ribaltamento di tale schema: sicché per il Ministro della Salute la privacy di chi riveste incarichi di governo o di rappresentanza diviene sacra e inviolabile (come nel caso della dichiarazione del neo-eletto commissario, che viene classificata dal Ministro della Salute come «audio rubato»), mentre la sfera privata dei cittadini diviene un affare dello Stato, e non solo, ai cittadini stessi, mediante le «segnalazioni» paventate dallo stesso Ministro Speranza, possono essere delegate funzioni che, ben oltre il mero dovere civico, divengono funzioni di polizia, come in ogni regime totalitario che si rispetti. Un appello alla responsabilità va fatto.
E al rispetto. Il rispetto per i calabresi, il rispetto per le articolazioni territoriali, il rispetto per l’intelligenza degli italiani. Perché benché ammettere un errore sia cosa ben più difficile che perpetrare in esso e perseverarvi nella speranza che gli italiani dimentichino, questo nodo non si scioglierà da solo.
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