La massa tracimante, che Enrico Ghezzi ha usato nella sigla del suo programma RAI, evoca l’idea del male che col terrore generato provoca senso #panico. La sua inconsistenza materiale rinvia ad una dimensione eterea che tuttavia pervade le menti.
Oggi l’uomo con la persistente pandemia si dimostra fragile, non solo per la patologia, ma soprattutto per ciò che sconvolge la mente. È proprio così che la paura annichilisce, impone nuove abitudini, rimaneggia nuove regole, insomma appare in tutta la sua traumatica ambivalenza: per un verso blocca e per altro desertifica.
Infatti, nella sua condizione umana, il blocco psicologico conduce al trauma, trovando l’uomo impreparato all’imprevisto (alla storia vista come frutto di incrocio casuale di variabili) e nel contempo lo riduce a sguardo smarrito rispetto ad una realtà che richiederebbe sicurezze organizzative ed ancoraggi esistenziali che mancano.
Coevamente questo blocco nelle relazioni sociali e nelle condotte lavorative equivale ad un ictus di immane e micidiale effetto: quello della morte civile, quello cioè che malgrado l’impegno (Robinson Cruise) non riesce a trarre frutti dagli utensili (materiali e concettuali) impiegati.
Il Covid-19 così diviene il pretesto, l’occasione per rappresentare l’orrore di un moloch, di fronte al quale si rimane impotenti, con la propria umanità e con la propria vita organizzata. Qui si centra il quid della crisi ovvero laddove regole ed istituzioni non bastano più a dare serenità rispetto al ‘tempo precedente’, in cui si dava molto per scontato ed il funzionamento complessivo era dettato da automatismi.
Oggi bisogna così riacquistare coscienza del limite, perché improvvisamente ci scopriamo non più autosufficienti perché non bastano più gli strumenti a disposizione, non solo in termini medicali (le terapie mancano di medicine appropriate), ma soprattutto in termini metodologici, ove la logica attuale nega di vivere pienamente la libertà di vivere responsabilmente.
Così ciò che si evidenzia è che ciascuno si connota nella quotidianità per quello che non riesce a fare, ovvero muoversi e circolare, esercitare funzioni ed attività, assumersi responsabilità e tutto ciò nell’integrale volontà di farlo liberamente.
Questo l’effetto blob che ci inghiotte in una dimensione confusa e annichilente, in cui le istituzioni danno regole a casaccio, in cui il pensiero si dimostra incapace di rigenerare quella necessità di stare al mondo compiutamente, ovverosia con scienza che istilla certezze verificabili e senza che la coscienza ci consenta di vivere secondo il paradigma naturale dell’ubi consistam (darsi cioè un punto d’appoggio morale e materiale), per cui si vive nell’impotenza di esercitare la propria autonomia nella sua esplicitazione fattiva.
È così che l’uomo cosciente sente il bisogno di prendersi la briga di organizzarsi con l’idea precisa che se è vero che l’errore e/o la violazione fanno parte della umana fallacia, rimane altrettanto vero che da esso può e deve derivarne l’azione risolutiva: quella che si organizza con mezzi e beni per donare speranza al vivere.
Uscire dalla confusione è obbligatorio ed è un invito che deve darsi alle istituzioni pubbliche e a chi le impersona di non continuare a tracimare con la retorica, con la patologica verbosità e con le raccomandazioni perché tutte queste sono specchio di bulimiche debolezze, di ataviche inconcludenze, di vapore incapace di condensare riferimenti certi.
In questo quadro patologico si mette in luce la mancanza di intelligenza nella piattaforma dei valori scelti, nelle condotte randagie e nell’immaginario comune. Ecco che, in questa maniera, il Covid-19, col suo tracimare, ha fatto emergere l’inconsistenza evidente che mette paura a tutti: quello della classe dirigente umana, sociale, culturale, politica.
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