Siamo seri! Ma davvero politologi e commentatori politici italiani, credono che il problema di questo Paese sia quello di scoprire se – il favoliere delle Puglie e premier per grazia ricevuta quai tre anni fa da Giggino Di Maio e Matteo Salvini e, poi, da Nicola Zingaretti – Giuseppi Conte, sia uscito dalle urne rafforzato o indebolito e se sieda su trono dorato o su una polveriera pronta a esplodere? La verità è ben più tragica. Tanto più perché nessuno ne parla e tutti fingono indifferenza.
Più che chiedersi, se Conte sia uscito dalle urne rafforzato o indebolito e se sieda su un trono o su una polveriera, sarebbe meglio chiedersi – che a palazzo Chigi, ci sia Giuseppi o chicchessia – cosa succederà da qui alla scadenza della legislatura. Con un Parlamento delegittimato per un terzo della sua consistenza, dalla vittoria del Si e che non può essere rinnovato perché prima bisogna cambiare: regolamenti, legge elettorale e ridisegnare i collegi, tarandoli sui 600 parlamentari previsti dalla riforma. E farlo non sarà né facile né veloce. Perché, a farlo, per altro, dovranno essere loro stessi (immaginate con quanta felicità) e ogni partito pensa a riformare tutto pensando al proprio tornaconto.
Tanto che subito dopo la vittoria del Si, per le differenziazioni nella maggioranza (Renzi punta al maggioritario, ma non teme, dice, il proporzionale; il Pd preferisce il proporzionale con soglia di sbarramento al 5%, ma non disdegna il maggioritario; Leu vuole una soglia inferiore al 5%; il M5S è in confusione totale, ma il suo fondatore Grillo, che «non crede più alla democrazia rappresentativa» propone il sorteggio degli eletti) l’esame della legge dalla settimana prossima è stato spostato a data da destinarsi.
Sicché, l’unico risultato ottenuto, nell’immediato, con il Si è la destabilizzazione del Parlamento, costretto a vivacchiare, tirando a campare fino al 2023, ma che ciò nonostante, nel 2022, eleggerà il nuovo Capo dello Stato, altrettanto delegittimato perché votato da 345 parlamentari che ci sono, mentre dovrebbero essere altrove.
Di più, il voto referendario, ci ha restituito un Parlamento, oltre che svilito, sotto scacco. Tutti i parlamentari, sono ricattabili e pronti ad accettare le imposizioni dei rispettivi leader. Per conservare scranno, stipendio e benefit e, magari, per ingraziarseli, sperando di riuscire a strappargli la ricandidatura e cercare di sopravvivere al taglio. Il rischio espulsione che incombe sugli 8 5S che hanno “osato” votare No, è la dimostrazione più lapalissiana del “triste” destino che aspetta tutti gli altri.
Sinceramente, pensare – alla luce di quello che hanno fatto finora – a cosa potranno fare lorsignori da oggi in avanti, a prescindere da chi ci sia a palazzo Chigi e dall’alleanza: giallorotta, gialloverde, larghe intese, che lo sosterrà, fa venire i brividi. Intanto, l’ipotesi più probabile è che – visti i rapporti esistenti fra i partiti – si tratterà sempre e comunque, di un’alleanza più “salvo” che “senza intese”. Tant’è che il Pd ha già deciso di “derubare” gli alleati della vittoria referendaria e per andare avanti in cambio del «si» alla legge elettorale, pretende dai 5S: l’ok alla fine del bicameralismo perfetto, al Mes, al Recovery fund, allo ius culturae, e all’accoglienza, indiscriminata.
E poiché alla luce dei flussi elettorali, la vittoria del Si è dovuta più agli elettori del centrodestra che a quelli della sinistra, bisogna ammettere che di questo marasma anche i leader del primo sono parte. Purtroppo, hanno chiesto, “per coerenza” e per consenso, ai propri elettori di votare Si, pur sapendo che l’unica possibilità di cambiare le carte in tavola al governo sarebbe stata una vittoria del No. Che avrebbe dimostrato tangibilmente come esecutivo e italiani distino tra loro anni luce.
E, nel caso, difficilmente Mattarella avrebbe potuto far finta di niente. Certo, la Coerenza è un valore importante, ma se non si tiene conto delle conseguenze che può produrre – e nel caso anche cambiare idea – diventa cocciutaggine ed è dannosa. Stavolta ha consentito a dem e pentaspennati di nascondere una dolorosa – magari, per i primi inferiore alle attese – sconfitta alle regionali, dietro una vittoria virtuale dovuta in grossa parte anche al centrodestra.
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