Secondo un pentito il battesimo del fuoco del boss ai danni di Lomasto
Ci sono momenti in cui la storia criminale salta il confine e trasborda nell’epica. E ci sono personaggi che fanno lo stesso percorso, a volte anche senza volerlo. È questione di carisma. Criminale, s’intende. Cosimo Di Lauro era uno di questi. Mediatico, feroce, vendicativo. Di lui si racconta sia stato il regista di quella carneficina di camorra che viene ricordata come Prima Faida di Scampia. Usando le lettere maiuscole, perché quando dalla storia si passa all’epica arriva anche il momento dell’antonomasia. Come suo padre. «Molto più duro di suo padre», disse qualche pentito.
La strategia spietata del giovane boss
Lo sguardo fiero del boss che non si sente sconfitto nemmeno quando in manette viene portato fuori dalla casa che aveva scelto come rifugio per la sua latitanza. Gli occhi neri e fissi, come immobili, verso le telecamere e gli obiettivi dei fotografi. Jeans, giacca di pelle e maglione nero. La ricordano tutti così la sua immagine. La sterzata data dalla gestione di Cosimo Di Lauro quando subentrò al padre Paolo fu evidente.
Prima tutti i sottogruppi avevano un’ampia autonomia gestionale, ma avevano due obblighi nei confronti della famiglia Di Lauro: dovevano comprare da loro la droga e poi versare 50 mila euro a settimana per ognuna delle 20 piazze dello spaccio.
Il giovane Di Lauro cambiò i giochi: pretese che tutti i sottocapi diventassero dipendenti stipendiati del clan. E di fronte alle rimostranze di alcuni cominciò a sostituire i capizona quarantenni o cinquantenni con nuovi capi, ventenni o trentenni al massimo: un ricambio generazionale forse mai visto nella storia criminale partenopea. I figli sostituirono i padri e i padri si ribellarono.
La faida, i ribelli e il battesimo del fuoco
La strategia di Cosimino raccontata dagli ultimi collaboratori di giustizia fu spiegata anche dal primo grande accusatore della mala secondiglianese, Pietro Esposito che parlò di un «ringiovanimento del clan, i cui esponenti» avrebbero dovuto avere al massimo trent’anni. In un’intercettazione si leggeva che Cosimo avrebbe voluto sferrare la controffensiva fino al punto di scatenare la guerra. Mandando a prendere i ribelli uno per uno. Colpendoli anche con le bombe.
I due intercettati si incontrarono ancora qualche giorno dopo e parlarono del giovane boss che definirono «un ottimo capo». Poi, nel corso della chiacchierata, si fece riferimento all’organizzazione di gruppi di fuoco composti da cinque o sei persone che si nascondevano nelle case e aspettavano il segnale per colpire i nemici. L’obiettivo era colpire per primi.
Di Cosimo ha parlato anche l’ultimo pentito del clan Di Lauro, Salvatore Tamburrino. Per anni inserito nella famiglia e ‘custode’ della latitanza di Marco Di Lauro fino al 2 marzo del 2019 quando, dopo aver ucciso la moglie a colpi di pistola, per alleggerire la sua posizione, rivelò il nascondiglio del boss che fu stanato nel giro di un’ora. Ha comandato il clan nella faida del 2004 – spiega Tamburrino che aggiunge – Materialmente, da ragazzino, Cosimo avrebbe solo commesso il tentato omicidio di Giuseppe Lomasto, un affiliato dei Licciardi, che non morì.
Quello sarebbe stato il primo agguato, il battesimo del fuoco per il principe nero di Cupa dell’Arco. Di agguati e delitti ordinati da Cosimo, invece, hanno parlato numerosi collaboratori di giustizia, riempiendo decine di pagine di verbali. Era così che il principe nero di Secondigliano combatteva la sua guerra contro la federazione dei ribelli.