Autonomia differenziata, le delusioni della sinistra e la mezza vittoria della destra

È già in Costituzione dal 2001 col Governo Amato e confermata dal referendum costituzionale dell’ottobre dello stesso anno

Sono ormai lontani i tempi in cui Massimo D’Alema, allora segretario del Partito Democratico della Sinistra succeduto ad Achille Occhetto, definiva la Lega come «costola della sinistra… che non ha nulla da vedere con un blocco organico di destra».

L’anno precedente c’era stata l’inaspettata vittoria di Berlusconi che, alle elezioni politiche del 1994, era riuscito a battere la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto grazie ad una coalizione di centro-destra nella quale era confluita anche la Lega di Bossi.

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Questa piccola premessa per ricordare come, con la creazione di coalizioni contrapposte favorite dal nuovo sistema elettorale maggioritario, la Lega non era ancora organica al blocco di centrodestra ed anzi aveva provocato la caduta del primo governo Berlusconi ed era passata a sostenere il governo Dini egemonizzato dalla sinistra.

Sul fronte della ricerca di maggiore autonomia per le regioni del Nord, la Lega, che ne faceva un cavallo di battaglia fortemente caratterizzante, era ovvio che venisse tentata di schierarsi con il maggiore offerente, connotandosi come una sorta di partito di centro. Specularmente, era interesse delle due coalizioni, che si contendevano l’egemonia, cercare di venire incontro alle sue richieste per rafforzare il proprio peso elettorale.

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Con il primo governo Prodi (1996-1998), seppure non sostenuto dalla Lega, ci pensò il ministro per la funzione pubblica Bassanini a rafforzare i poteri delle regioni con norme ordinarie e a «costituzione vigente», come amava dire.

Il governo Amato

La riforma costituzionale arriverà con il governo Amato (2000-2001), approvata con soli quattro voti di scarto, ma confermata e resa esecutiva con il referendum dell’ottobre 2001, il primo della storia repubblicana e l’unico ad avere superato la prova del consenso popolare.

Tra i tanti articoli modificati nel titolo V della parte II, troviamo il fatidico articolo 116, che è quello che ha dato il via alla famigerata «autonomia differenziata» di cui tanto si discute ai nostri giorni. Il predetto articolo, nell’elencare le cinque regioni a statuto speciale, riconosce che esse «dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia», in forza dei loro statuti.

Ma, secondo il comma tre, che potremmo definire il comma della discordia, pure le regioni a statuto ordinario possono, se ne fanno richiesta, ottenere «Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» attraverso «intese» con lo Stato.

La prima regione a voler avviare le procedure per diventare «speciale» è stata la Toscana (2003), seguita qualche anno dopo da Lombardia (2006) Veneto (2007) ed Emilia Romagna (2007). Le regioni governate dal centrosinistra non volevano perdere elettori tra i non pochi simpatizzanti di una maggiore autonomia; le regioni del centrodestra sentivano di non dover compromettere l’alleanza con la Lega.

Tuttavia bisognerà aspettare gli ultimi giorni del governo Gentiloni per vedere sottoscrivere le prime «Pre-Intese» fra il governo e le regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Con le elezioni politiche del marzo 2018 ed il primo governo Conte, formato dal Movimento Cinque Stelle e la Lega, l’autonomia differenziata divenne una «questione prioritaria» nel «contratto di governo» sottoscritto dalle due forze politiche.

Toccò quindi a un ministro leghista (Erika Stefano) cercare di chiudere definitivamente le intese, senza però riuscirci per gli insorgenti mal di pancia degli alleati di governo.

I tentativi di Francesco Boccia

Nel successivo governo Conte, la gatta da pelare finì nelle mani di un ministro del Partito democratico (Francesco Boccia), che provò ad approntare una legge-quadro per superare gli scogli dell’autonomia differenziata, sia sotto il profilo interpretativo delle previsioni costituzionali, sia sotto il profilo procedurale. L’iniziativa non ebbe successo, come non ne ebbe quando, sulla stessa scia, se ne occupò Maria Stella Gelmini, di orientamento politico fluido-centrista, all’epoca del governo Draghi.

E veniamo all’ultimo Ministro per gli affari regionali e le autonomie, Roberto Calderoli della Lega Nord, attualmente in carica nel governo Meloni. A lui è riuscito di portare a termine quella legge-quadro che segnò l’insuccesso dei precedenti governi e ministri.

La legge Calderoli (n. 86 del 26 giugno 2024) non risolve tutte le questioni poste sul tappeto, ma ha natura di atto propedeutico dal momento che contiene «Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione».

Mentre dopo oltre 23 anni l’autonomia differenziata vera e propria è ancora di là da venire, questa legge è stata fortemente compromessa da una sentenza della Corte Costituzionale, che ha soppresso alcuni articoli e ne ha azzoppati altri. La Cassazione, inoltre, ha autorizzato il referendum, che è stato richiesto persino da regioni che avevano avviato le procedure per ottenere «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia».

Il governo Meloni

Oggi non si perdona al governo Meloni di essere riuscito laddove gli altri governi hanno fallito e se anche l’eventuale referendum (già ammesso dalla Cassazione, ma non ancora dalla Corte Costituzionale) bocciasse la legge Calderoli, cosa cambierebbe? Nulla. Come nulla cambierebbe in caso di vittoria degli autonomisti. Il difetto, come suol dirsi, sta nel manico, sta nella previsione costituzionale che consente a qualsiasi regione a statuto ordinario di richiedere «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» (c.3, art.116).

Eppure, il governo di centrodestra avrebbe potuto attingere, almeno nel metodo, a quanto fatto dal governo Berlusconi e dallo stesso Calderoli in prima persona, quando, con la riforma costituzionale del 2005, purtroppo bocciata dal referendum del 2006, si decise di eliminare il comma tre dell’articolo 116 e sostituirlo con un elenco chiaro di nuove materie rientranti nelle competenze regionali. Sarebbe stata la fine delle «intese» e di un discutibile mercato istituzionale.

Inoltre, sarebbe stato opportuno aggiungere una clausola di supremazia, già presente nella Costituzione del ’48, cancellata dalla riforma del 2001 e reintrodotta dalla fallita riforma del 2005, per restituire allo Stato la possibilità di trascendere le norme regionali ogniqualvolta se ne presenti la necessità in nome del superiore interesse nazionale. Alla fine rimangono le delusioni della sinistra e la mezza vittoria della destra.

Nuccio Carrara
Già deputato e sottosegretario
alle riforme istituzionali

Setaro

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