La piattaforma, circolata, genera più perplessità che certezze. E continua la surreale, ma violenta, «rivoluzione» di Landini
Come ricorderete nell’«editoriale» di lunedì scorso, avevo sottolineato che, per arrivare ai livelli pre-Stellantis, la Fiat, negli anni, aveva ricevuto dallo Stato, tante di quelle risorse, prelevate dalle tasche dei cittadini ovviamente, 220 miliardi di euro (e se pensate che non siano poi così tante, confrontatele con il controvalore in lire italiane: 425.979 miliardi e 400 milioni). E questo solo dal 1895 al 2012, da far accapponare la pelle. La sua storia e la sua fortuna, quindi, sono legate soprattutto all’Italia.
Per cui, sarebbe giusto che nell’incontro di domani con il governo e i sindacati, per la presentazione del piano industriale per investimenti e occupazione negli stabilimenti italiani, il gruppo italo-franco-olandese (il cui maggiore azionista è Exor, la holding della famiglia Agnelli, con il 14,2%) tenesse conto anche di questo. Rivedesse gli accordi con le aziende dell’indotto, consentendo loro di richiamare le lettere di licenziamento ai dipendenti. E martedì, proprio a Roma, il ministro Urso ha annunciato che Stellantis aveva prorogato i contratti alle aziende interessate che, a loro volta, avevano revocato i 249 licenziamenti. Tutto a posto, allora? Per niente!
Si tratta di una proroga di soli 12 mesi, strumentale a decidere cosa fare della Gigafactory di Termoli, a metà del 2025. È solo il primo passo e compiuto il primo, ora bisogna fare gli altri. A cominciare proprio dalla scelta per Termoli, piano industriale e indotto, Elkann può e deve insomma dimostrare di avere a cuore le sorti dell’Italia. Il Paese, cioè, che ha visto nascere l’azienda, contribuendo a farla crescere, ne è stato a lungo il cuore pulsante, accompagnandola fino a farla diventare quella che è: il marchio leader di un gruppo forte di ben 14 fra i principali brand mondiali dell’automotive.
Ricambiare senza pretendere
Con un peso sull’economia italiana tutt’altro che indifferente: 273 mila addetti, per 5.528 aziende, 86 miliardi di fatturato, il 9,9% del comparto manifatturiero e il 5,5% del Pil nazionale. E negli ultimi 4 anni ha portato a casa, girandoli ai propri azionisti, ben 23 miliardi tra dividendi e riacquisto di titoli propri, ma «mandando» a casa oltre 10mila dipendenti, incentivando esodi e cassa integrazione. Sicché, ora sarebbe tempo di ricambiare, senza continuare a pretendere. E poi andare a investire 4 miliardi per una gigafactory in Spagna, lasciando la produzione della nuova 500 ibrida a Mirafiori e, «fra color che sono sospesi», Panda e Pomigliano e il suo indotto.
Il silenzio di Landini
Approfittando che il segretario generale della Cgil, Landini, impegnato a far politica e mettere in scena, per altro, a step settimanali, la pantomima di una sorta «rivoluzione d’ottobre», ma a Natale, si gira dall’altra parte, non se ne accorge e parla d’altro. Del resto – come diceva De Tocqueville – gli pseudo rivoluzionari sono «sempre pronti ad abbattere, ma mai a costruire».
Tant’è che, il quotidiano Usa «Politico.eu», assegna alla Meloni il titolo di «persona più potente d’Europa», «Forbes la inserisce al terzo posto, fra «le più influenti» dopo la von der Leyen e Lagarde; i dati della Cgia di Mestre confermano che negli ultimi 2 anni, sono nati 900mila posti di lavoro, di cui il 50% donne; sono cresciuti i posti fissi, sono diminuiti disoccupati e precari, nel Sud si assume grazie alla crescita degli investimenti pubblici legati a Pnrr, costruzioni ed esportazioni; sono stati spesi 59 miliardi di risorse europee e si punta ad arrivare a 64 entro fine anno.
E ancora il ministro Giorgetti sta cercando di mettere a punto un decreto che semplifichi l’erogazione dei fondi e il suo collega Urso ha raggiunto l’accordo con Bruxelles per snellire il sistema d’incentivi dall’eccesso di burocrazia e la costituzione di un fondo da 320 milioni per le piccole imprese, per sostenerne l’autoconsumo di energia.
Ciò nonostante Landini chiede per il rinnovo del contratto dei dipendenti comunali, di ridurre l’orario settimanale da 36 a 30 ore, distribuite su quattro giorni di lavoro. Ma a paga invariata.
I 6 eroi dell’apocalisse
Per fortuna, ormai i lavoratori li hanno «sgamati» e non si meravigliano più se i 6 eroi dell’apocalisse: Landini, Bombardieri, Schlein, Conte, Bonelli e Fratoianni non parlino più di lavoro e lavoratori se non per accusare il Governo per i bassi salari e la mancata introduzione del salario minimo (9 euro all’ora, ma netto o lordo?) per legge, come se questo, potesse davvero servire a migliorare la situazione e far crescere il potere d’acquisto dei dipendenti. E insieme, Cgil e Uil chiedono agli stessi addetti della Pa di firmare la richiesta di un referendum per cancellare il rinnovo di un contratto con aumenti da 160 euro lordi mensili e la settimana cortissima di 4 giorni a parità d’orario (36 ore). Che il «gatto e la volpe» non hanno firmato.
Ciò spiega perché, ai loro scioperi, di lavoratori veri se ne vedano pochini mentre ci sono gruppi studenteschi, alternativi, autonomi, Pro-Pal e immigrati (che non hanno alcuna voglia di integrarsi, ma protestano perché «non si sentono integrati») se ne vedono tantissimi. Gente, insomma, che va in piazza per menare le mani contro le forze dell’ordine (che, tra l’altro, cominciano a preferire di non difendersi per non finire inquisiti, penalizzati, processati con difesa a proprio carico), incendiare cassonetti e sfasciare vetrine di negozi.