Il progetto: le colombe imposte a Pasqua portano fino a 300mila euro nelle casse del clan. L’idea adottata anche per Natale
Natale, per la camorra, significa racket. Da sempre. Un chiaro riferimento all’imposizione annuale dei gadget natalizi emerge, in particolare, da una conversazione intercettata in data 9 marzo 2016 – in ambientale presso l’abitazione di Ciro Mauriello, covo del clan dall’ottobre 2015 sino al febbraio 2017, ossia nel periodo in cui Mauriello era agli arresti domiciliari.
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In via Cicerone a Melito operava come referente dell’allora capoclan Rosaria Pagano, sorella di Cesare. In un incontro mirato, Mauriello e suoi più stretti collaboratori, Pasquale Cristiano detto «Bisio», e Giuseppe Cipressa, nel discutere sulle modalità più convenienti per imporre il tipo di «promozioni» ai commercianti, il pizzo truccato da gadget, fu auspicato un ritorno al passato quando non solo a Natale si imponevano acquisiti ai commercianti, ma anche a Pasqua, con l’acquisto delle colombe, affare che – a giudizio di Mauriello – avrebbe portato alle casse del clan 300mila euro.
Ma sono anche altri verbali a spiegare il business. «I ragazzi avevano una specie di album in cui c’erano le fotografie dei gadget, ossia penne, calendari, portapatenti, che mostravano ai negozianti che potevano acquistare uno o più pacchi di materiale natalizio. Ogni pacco costava 160 euro. In un anno, solo questo giro, ha fruttato a Melito 100 mila euro».
Il collaboratore di giustizia Fabio Vitagliano racconta il sistema di Melito. Qualcosa di rodato con uno schema ripetuto anno dopo anni. Un loop asfissiante per i piccoli imprenditori e i commercianti che, inevitabilmente, si ritrovavano periodicamente al cospetto degli esattori del clan. Un dato emerso nel corso di un’inchiesta del comando provinciale della guardia di finanza e della questura di Napoli, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia partenopea che portò portato all’arresto di 31 soggetti, tra capi e gregari, del clan Amato-Pagano.
Il summit monitorato
Il racket era una delle voci di bilancio del sistema di Melito, tanto rodato che aveva superato anche i cambi della guardia criminali. Era il 15 settembre del 2014. Nel corso di un incontro monitorato con un microfono ambientale veniva spiegato ad alcuni presenti come compilare l’ordine dei «gadget natalizi» scelti dagli esercenti visitati in modo da evitare di incorrere nei problemi avuti l’anno precedente (riferendosi al fermo da parte dei carabinieri di due esattori). A quel punto venivano ripartite le zone e a uno veniva affidata l’intera area della Circumvallazione, precisando che in totale i negozi da visitare erano «circa 350/400».
Veniva poi indicata la modalità di esecuzione delle attività da svolgere sul territorio, chiarendo che bisognava far capire al commerciante che ci si presentava per conto dei «compagni di Melito», ossia del clan, ma senza essere troppo aggressivi, per non dare l’impressione che fosse un’estorsione. Tant’è che, se il commerciante rifiutava l’acquisto, non avrebbero dovuto esercitare alcuna pressione, ma lasciare il negozio. Fondamentale, tuttavia, era comunicare il nome della persona che non aveva voluto pagare.
E cosa accadeva? Lo spiegò Paolo Caiazza nel corso di un interrogatorio del 14 aprile 2016: «Ogni commerciante era obbligato a prendere almeno un pacco. Qualcuno non voleva farlo, a quel punto intervenivo anche io. Come il proprietario di un negozio di abbigliamento. Non pagava la tangente perché ci faceva lo sconto sui vestiti. A Natale voleva comprare solo un pacco, ma noi sapevamo che avrebbe potuto prenderne di più. Noi sapevamo quando un negozio poteva pagare o no. Se uno fosse stato in difficoltà non avremmo insistito».