La Corte penale internazionale ordina l’arresto di Benyamin Netanyahu

di Antonella Di Martino

Nel mirino dei giudici anche l’ex ministro Gallant e il capo militare di Hamas

Dopo più di un anno di guerra e 44 mila morti tra i palestinesi, la Corte penale internazionale ha spiccato i suoi primi mandati di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità commessi nella Striscia e in Israele dopo il 7 ottobre 2023. Nel mirino dei giudici della Camera preliminare sono finiti – su richiesta del procuratore capo Karim Khan – il premier israeliano Benyamin Netanyahu e il suo ex ministro della Difesa, Yoav Gallant (poi cacciato dallo stesso primo ministro), nonché il capo militare di Hamas, Deif, che però Israele ritiene di aver ucciso in un raid a Gaza.

Immediata è stata la reazione indignata e irritata di Israele, a partire da quella dei due leader chiamati in causa: dall’Aja «una decisione antisemita» degna di «un nuovo processo Dreyfus», ha tuonato Netanyahu attraverso il suo ufficio, mentre per Gallant la Corte «mette sullo stesso piano Israele e Hamas, incoraggiando il terrorismo». Senza citare Deif, la fazione palestinese ha invece apprezzato «il passo importante verso la giustizia». Al fianco di Israele si sono subito schierati gli Stati Uniti e l’Argentina.

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Le reazioni internazionali

L’amministrazione Biden ha fatto sapere di «respingere categoricamente» la decisione della Cpi, dicendosi «profondamente preoccupata» e non riconoscendo la giurisdizione della Corte «su questa questione», mentre per Javier Milei così si «ignora il legittimo diritto di Israele a difendersi dagli attacchi costanti di Hamas e Hezbollah».

L’Unione europea, per voce dell’alto rappresentante per la politica estera uscente, Josep Borrell, ha invece difeso i giudici dell’Aja: la loro «non è una decisione politica, ma la decisione di un tribunale che deve essere rispettata e applicata», ha detto, sottolineando che «la tragedia a Gaza deve finire». Il diplomatico spagnolo ha quindi ricordato che si tratta di una «decisione vincolante» cui tutti i Paesi Ue devono adempiere.

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I 124 Stati parte della Cpi che hanno aderito allo Statuto di Roma sono infatti obbligati ad eseguire i mandati d’arresto se un ricercato dalla Corte dovesse entrare nel loro territorio, compresi i capi di governo come in questo caso. Un obbligo che renderà molto difficile per Netanyahu recarsi all’estero d’ora in poi anche nelle sue funzioni di primo ministro. A ricordare gli obblighi dei Paesi membri è stato anche un appello del procuratore: «Contiamo sulla loro cooperazione», ha dichiarato, difendendo anche il suo operato.

Le richieste di arresto «sono state presentate a seguito di un’indagine indipendente e sulla base di prove oggettive e verificabili, esaminate attraverso un processo forense», ha spiegato. E ha quindi annunciato che il suo ufficio continua a indagare, viste «le segnalazioni di violenza crescente» e di altre violazioni del diritti internazionale umanitario ancora in corso a Gaza e in Cisgiordania. Israele ha rilanciato le accuse di «molestie sessuali» recentemente circolate sui media nei confronti di Khan, definendolo «un procuratore corrotto». Il primo Paese ad assicurare alla Cpi la sua piena collaborazione è stata l’Olanda, che tra l’altro ospita la sede della Corte all’Aja.

La reazione dell’Italia

L’Italia, ha commentato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, «sostiene la Cpi» e «valuterà insieme ai nostri alleati come comportarci insieme su questa vicenda». Mentre il collega della Difesa Guido Crosetto, pur ritenendo la decisione della Corte «sbagliata», ha sostenuto che se Netanyahu e Gallant «venissero in Italia dovremmo arrestarli, perché noi rispettiamo il diritto internazionale».

È difficile comunque immaginare che i due finiscano effettivamente alla sbarra all’Aja. Si tratta dei primi mandati di arresto per i leader di un Paese abitualmente sostenuto dall’Occidente. La vicenda non ha nulla a che vedere con l’altro procedimento in corso, sempre all’Aja ma davanti alla Corte internazionale di giustizia, sulle accuse allo Stato di Israele di commettere un «genocidio» contro i palestinesi, mosse principalmente dal Sudafrica. La Cpi persegue le responsabilità individuali, in questo caso dei vertici dell’Idf e delle altre agenzie governative israeliane. E molti osservatori ritengono che i mandati abbiano un valore etico, per ricordare che anche la guerra ha le sue regole.

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