La maxiretata arrivò il giorno dopo la morte di Dario Scherillo, un’altra vittima innocente della guerra tra Di Lauro e scissionisti dopo Gelsomina Verde
Le prime ‘barriere’ a cadere tra la polizia e alcuni degli uomini più ricercati di Napoli furono i cancelli, le inferriate e le costruzioni che proteggevano i fortini dei boss. Era il 7 dicembre del 2004, in quella che sarebbe poi stata ricordata come la ‘Notte delle manette’. Oggi sono 20 anni da quando, in una Secondigliano e una Scampia militarizzate a causa della faida tra clan Di Lauro e scissionisti, lo Stato fece la voce grossa e diede una prima sfoltita a una parte di camorra che al tempo appariva invincibile e dalle inesauribili risorse economiche. Erano anni bui, quelli. Statisticamente si registrava un morto ammazzato ogni tre giorni.
Indice Articolo
Ritrovamenti di droga, armi e munizioni erano quasi quotidiani. Facevano sul serio i killer della camorra. Si comportavano da professionisti. Nei giorni precedenti a quel blitz si erano succeduti senza interruzione le perlustrazioni e i rastrellamenti da parte dei vigili del fuoco e della polizia nel quartiere di Secondigliano. Individuato il cuore pulsante e abbattute le sue difese diventò relativamente facile per le forze dell’ordine profanare quelli che erano considerati i santuari della camorra dell’area nord. Erano più di 1500 gli agenti che all’alba eseguirono 53 ordinanze sulle 65 spiccate.
Oltre 50 arresti e 1500 carabinieri in azione
L’allora procuratore aggiunto Felice Di Persia commentò l’ondata di arresti come necessaria per «dare fiducia alle persone oneste che vivono in una zona degradata e che potrebbero dare una mano allo Stato». A quei morti ammazzati (tanti, troppi) la risposta dello Stato ci fu. Per qualche mese l’area nord si era trasformata nel ‘Grand Guignol’ del crimine. Macabro palcoscenico delle più feroci violenze: omicidi, torture, corpi carbonizzati e lupare bianche. Furono colpiti entrambi i ‘contendenti’ di quella mattanza. Gli scissionisti, da una parte; i Di Lauro, dall’altra.
Tra i fermati c’era anche Ciro Di Lauro, uno degli undici figli del boss Ciruzzo ’o milionario, che con i fratelli Vincenzo (al tempo detenuto perché arrestato a Chivasso in provincia di Torino), Marco e Cosimo, che erano irreperibili, avrebbe deciso di «ringiovanire» il clan mandando in pensione alcuni tra i fondatori dell’organizzazione capeggiata dal padre. In una ricostruzione della faida fatta dai magistrati che coordinarono l’inchiesta, si potevano leggere i momenti decisivi in cui saltarono gli equilibri nel clan Di Lauro e le svolte investigative. Determinante ai fini dell’inchiesta fu il contributo di alcuni collaboratori di giustizia.
I primi pentiti
Come Conte, Migliaccio e Pietro Esposito che decise di pentirsi perché scosso dalla barbara uccisione di Gelsomina Verde. La faida ebbe inizio quando la mala di Secondigliano e Scampia aveva cominciato a temere di perdere il controllo delle attività illecite a Melito, Arzano, Mugnano, Casavatore ed oltre. Il primo elemento di spicco a finire nel mirino dei killer fu Federico Bizzarro, capozona di Di Lauro a Melito.
Quel delitto preoccupò anche i più fedeli gregari di Di Lauro, alcuni dei quali decisero di unirsi al gruppo degli ‘scissionisti’ al quale aderirono personaggi di notevole spessore criminale fino ad allora vicini al boss Ciruzzo. C’erano Vincenzo Pariante, fratello di Rosario, ras di Baia e Bacoli e braccio destro di Di Lauro. C’era Gennaro Marino, capozona per Di Lauro nel rione delle ‘Case Celesti’, e Arcangelo Abete. Molte, inoltre, le intercettazioni telefoniche ed ambientali (una ‘cimice’ fu tenuta per molto tempo in un’auto), che fecero emergere elementi probatori a carico di Cosimo, Ciro e Marco Di Lauro figli del boss. Uno di quei giovani capi, Marco Di Lauro, è rimasto latitante fino al 2 marzo del 2019.
Le donne mandate avanti dal clan
Durante il blitz la camorra mandò avanti le donne. Scesero in strada all’alba per inveire contro le forze dell’ordine. Decine di donne, alcune ancora in vestaglia e con i bambini in braccio o tenuti per mano. Si ribellarono così all’irruzione dei carabinieri nel bunker del Terzo Mondo. Lì le sentinelle dei clan impedivano di fatto l’accesso agli sconosciuti.
I carabinieri arrivarono a sirene spente, ma già i riflessi dei lampeggianti svegliarono gli abitanti del rione: e da dietro le finestre partirono i primi «jatevenne». I militari irruppero negli appartamenti, le porte blindate furono sfondate, alcune palazzine setacciate casa per casa alla ricerca dei destinatari dei provvedimenti di fermo. In strada si radunò una folla di donne, pronte anche a fare barriera con i loro corpi a difesa di porte e verande.
Appena il giorno prima, il 6 dicembre del 2004, era morto un altro innocente. Tra Scampia, Secondigliano e i comuni limitrofi, c’era la guerra. In mezzo, una porzione di città e hinterland in ostaggio della violenza della camorra. Quella sera le batterie dei clan entrarono in azione a Casavatore, in via Segrè e fecero fuoco. Pochi minuti dopo, due carabinieri suonarono alla porta di casa Scherillo. Uno aveva gli occhi umidi perché avrebbe dovuto dire a quella famiglia perbene che il loro Dario non c’era più. Che la violenza dei clan lo aveva spazzato via. Da innocente.