Vincenzo Pirozzi: «Noi adulti ci nascondiamo, ma serve il dialogo tra generazioni»

di Mauro Della Corte

L’attore e regista a ilSud24.it: «La violenza giovanile non è colpa della tv, bisogna far comprendere il valore della vita»

Controlli e repressione da soli non bastano per combattere la violenza giovanile. Occorre che gli adulti inizino di nuovo a dialogare coi giovani. Ne è convinto Vincenzo Pirozzi, attore e regista di grande successo che a «ilSud24» ha raccontato la sua personale esperienza, dall’infanzia trascorsa al rione Sanità di Napoli fino al teatro, al cinema, alle serie tv e alle soap per la Rai.

Un percorso lungo, ma ricco di soddisfazioni

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«Il rione Sanità, agli inizi degli anni ‘90, era un quartiere di periferia al centro di Napoli. Noi giovani eravamo facilmente esposti a vicende non troppo felici. In quel contesto la chiesa ci fu molto d’aiuto. Io ho iniziato a conoscere il teatro quando avevo 11 anni a fare recite parrocchiali. Poi ebbi la fortuna di incontrare Antonio Capuano che nel 1995, mi aiutò a intraprendere il mio percorso cinematografico. L’ho fatto da improvvisato inizialmente perché non conoscevo per niente il cinema, anche se l’ho sempre amato, così come ho amato il teatro e successivamente la televisione».

Nel 1996 uscì «“Pianese Nunzio, 14 anni a maggio”, è stato il mio primo film sia da attore ma anche da assistente volontario alla regia. Da lì poi io, conoscendo Antonio, Gianni Minervini e Alessandro Vivarelli, che erano produttori e organizzatori dell’AMA Film, tra cui ricordo “Mediterraneo”, prodotto da loro, ho iniziato a frequentare gli Studi, a trasferirmi a Roma perché questo mestiere lo puoi fare fino a un certo punto da neofita, poi devi comunque conoscerlo sia a livello pratico ma soprattutto a livello teorico per poi mettere in atto la pratica. Nel frattempo mi sono poi diplomato in tutt’altro ramo, per accedere poi ad alcuni corsi tra Roma e Napoli e nel frattempo continuavo a lavorare da attore per il teatro, per il cinema ma anche come assistente».

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I primi traguardi

Poi, d’improvviso, mentre la routine va avanti, qualcosa cambia…

«Nel frattempo gli anni passano e le esperienze si accumulano, finché, poi è arrivata la mia svolta artistica, dopo un bel po’ di cortometraggi. Il mio primo lavoro da regista è stata, ripeto dopo i corti, il teatro, tanto tanto teatro, la televisione con “Un posto al sole” dove ho lavorato per quasi 16 anni. Nel frattempo ho fatto altre cose, sempre per il teatro, sempre per il cinema, tra cui tre film. Uno è “Sodoma, l’altra Faccia di Gomorra” che fu la mia opera prima, il mio primo lungometraggio per il cinema. Sei anni fa il mio secondo film “Dove si ferma il tempo” che trattava la tematica delle carceri minorili ed è un film che nacque in modo curioso».

Come? «Nacque da un laboratorio che io feci con tanti giovani, tra cui appassionati di cinema, alle prime esperienze da professionisti, ma anche con attori di una certa fama come Ciro Capano, Maddalena Stornaiuolo e altri. In più, e questa è la cosa più importante, c’erano parecchi giovani che erano in messa alla prova, ex futuri galeotti, che presero parte alla pellicola e ci fu una “misticanza” tra arte e sociale. Venne fuori questo film che oggi sta su Amazon Prime. E poi il mio terzo film, che ho girato due anni fa, che è ancora in uscita, che si chiama “Il peso esatto del vuoto”. E oggi sto girando una serie da regista per Rai 1, ambientata a Sorrento. Si chiama “Roberta Valente, notaio in Sorrento” ed è ambientata a Sorrento che dovrebbe uscire nel 2025».

La napoletanità

Essere napoletani è una marcia in più o una difficoltà in più in questo ambiente?

«C’è sempre il rovescio della medaglia, Napoli per antonomasia è il teatro vivente per il mondo, no? Qui sono nati tanti artisti, cito Edoardo, Massimo Troisi, Totò, sono i primi nomi che mi vengono in mente, quelli più lampanti, ma poi ce ne sono numerosi, non in vita più purtroppo, e tantissimi ancora in vita. Quindi è una marcia in più, sotto questo aspetto, perché ti facilita nella conoscenza della settima arte. D’altro canto, ritornando al discorso del rovescio delle medaglie, invece Napoli è vista da parecchi artisti come crocevia di malesseri, se così possiamo dire. Ti facilita su certe cose per quanto riguarda l’arte, ma ti rallenta per la crescita sotto altri aspetti».

Dissacrando la malavita

Perché hai scelto di fare anche “Sodoma, l’altra faccia di Gomorra”? Forse per dissacrare i temi forti di Gomorra, per ridere della camorra?

«Faccio “Sodoma, l’altra faccia di Gomorra” all’epoca perché in realtà io vengo da un percorso anche sociale. Venendo dalla Sanità ho fatto per 14 anni dei laboratori per giovani del quartiere e non solo, per avvicinarli al teatro, al cinema, anche alla televisione, alla danza. Era un po’ una satira dissacrante nei confronti dei malesseri che attanagliavano e attanagliano ancora la città di Napoli. Quando mi è stato proposto di fare “Sodoma, l’altra faccia di Gomorra”, prima di pensare all’entusiasmo di fare la mia prima opera da cinematografaro, a me istintivamente è nato il bisogno, il sentire, di fare un’opera del genere per il cinema che andasse un po’ a rompere gli schemi esasperanti e drammatici di un libro cult che all’epoca era predominante nella letteratura contemporanea, quello di Roberto Saviano, ovvero Gomorra».

La violenza giovanile

In questi giorni si parla molto di violenza giovanile, ad esempio a Napoli. Tu hai recitato anche in Gomorra. Molti hanno criticato però questa serie, il film. Secondo te hanno lasciato brutti esempi?

«È un facile approccio puntare il dito nei confronti della serie, del film e di quello che è arte. Non ci dimentichiamo che siamo figli degli anni ‘80. Io faccio cinema grazie a “C’era una volta in America”. Per la prima volta, quando ero ragazzetto, avevo 11-12 anni, e c’era “C’era una volta in America” e rimasi folgorato ma c’era “Scarface”, c’era “il Padrino”, ma ne possiamo citare numerosi di gangster movie, oppure i cartoni animati, che erano cartoni animati che parlavano di supereroi, di robot che salvavano il mondo. All’epoca, allora, noi dovevamo salire sui tetti delle case e lanciarci giù pensando che fossimo degli Spider-Man o dei Superman. E non è stato così. È facile adesso dire che è colpa degli stereotipi che sono i progetti cinematografici e televisivi».

A cosa è dovuta, allora, secondo la tua esperienza, questa violenza?

«La verità è che ognuno di noi, adulti, ci nascondiamo dietro l’approssimazione, la facilità e l’immediatezza che i social ci propongono. Non esiste più il dialogo tra le varie generazioni. Ho assistito anche ad alcuni discorsi fatti sui social poche settimane fa, nei momenti disperati delle morti di questi giovani ragazzi, a persone che si chiedevano come fare, come non fare, che dire, come poter fare riunioni, fiaccolate».

«Per me queste sono cavolate perché i giovani vanno presi, guardati negli occhi. Con loro c’è bisogno di parlare a quattro occhi. Lo dico perché in passato questa cosa è stata fatta con me, da un parroco che era padre Giuseppe Rassello, ex parroco del quartiere Sanità. Questo parroco prese una marea di noi, ragazzini che giocavano a calcio per strada, dei quali forse parecchi erano destinati a fare una brutta fine, e ci ha insegnato a capire il bello della vita. Per me è stata l’arte della cinematografia, qualcuno è diventato archeologo, qualcuno è diventato pittore, qualcuno è diventato maestro di scuola, qualcuno invece un semplice impiegato. Ma quello ci ha portato a capire il valore reale della vita. I giovani vanno presi, guardati negli occhi e vanno trattati per quello che sono, per la profondità d’animo che hanno, non trattati semplicemente come giovani e basta».

La famiglia

Immagino che questi discorsi li abbia fatti anche con i tuoi figli

«Certo, ho un dialogo con entrambi. Il più grande è Giulio che sta iniziando a percorrere una carriera in produzione. Adesso sta lavorando con me, per esempio. Lui non ha mai voluto fare l’attore, rispetto a Giuseppe, che invece ha sempre amato, ha sempre avuto la passione della recitazione. Io non ho mai imposto ai miei figli la strada da intraprendere. Mai. E c’è un dialogo, sia mio che di mia moglie, straordinario con i nostri figli. Io non dico di essere un papà esemplare, assolutamente. Io sono un semplice papà a cui cinema, teatro e televisione hanno salvato la vita, quindi perché non usare quel tipo di metodologia che hanno usato con me per insegnare ai giovani ad avere una vita migliore? Spero, credo, fino adesso è così. Con i miei figli ci sto riuscendo, spero che lo sarà anche in futuro. Poi la vita è improbabile».

Come fai a conciliare il ruolo di padre e il sostegno ai loro percorsi e la tua carriera? Perché comunque sono tutti percorsi impegnativi

«Assolutamente, però se tu pensi di fare l’autore, di fare il regista, di amare questa vita. Poi prima ancora devi pensare di essere un essere umano e di essere un padre. Per me non è un ritagliare del tempo da dedicare alla famiglia. Per me è un tempo prioritario da condividere col tempo professionale. Anzi, è il tempo professionale che va condiviso con la vita privata, con la famiglia».

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