Il giudice: «Solo chi sapeva dov’era l’arma poteva vederla»
«Arcangelo lo sfidava a sparare, mostrando il petto… tutti guardavano nella loro direzione e, una volta esploso il colpo, gli avevano urlato ‘cosa hai fatto’». Mette i brividi il racconto contenuto nell’ordinanza con la quale il gip di Napoli Maria Gabriella Iagulli ha disposto il carcere per Renato Caiafa. Agli inquirenti Caiafa riferisce «di essersi reso conto che si trattava di un’arma vera e propria solo al momento dello sparo e, in particolare, allorquando aveva visto il sangue di Arcangelo a terra».
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Sempre secondo il suo racconto «tutto il gruppo di amici con i quali si trovava aveva visto l’arma e che tutti erano consapevoli del gioco che stavano facendo lui e Correra». In base a questa circostanza quindi, per il giudice, «sarebbero state false tutte le dichiarazioni rese dai giovani sentiti che avevano riferito di non aver visto alcuna arma e, anzi, di non aver visto neanche il momento dell’esplosione del colpo».
Il posizionamento dell’arma
«Solo chi ne avesse conosciuto il posizionamento preciso dell’arma avrebbe potuto vederla» sostiene ancora la gip Maria Gabriella Iagulli. All’indagato viene contestato il porto, la detenzione e la ricettazione dell’arma (per l’omicidio è solo indagato) una calibro 9×21 con la matricola cancellata e un serbatoio maggiorato nel quale c’erano almeno 18 dei 26 colpi che poteva contenere.
Un’arma che essendo clandestina e potenziata ha un grande valore di mercato. A parere del giudice l’arma era nella disponibilità di quel gruppo di ragazzi: è inverosimile per l’autorità giudiziaria la versione del ritrovamento casuale per strada fornita dal 19enne, anche se è credibile l’ipotesi del gioco finito male. «Nessuno – sostiene il giudice – avrebbe lasciato un’arma carica, considerato il suo valore, per strada alla libera apprensione da parte di terzi… la criminalità tende ad acquisire il possesso di questo tipo di armi… che possono essere usate mille e mille volte ancora proprio perché, in quanto clandestine, sono difficilmente ricollegabili ai delitti commessi e ai loro autori».
Per il giudice è inverosimile che un’arma nera, nascosta tra una ruota anch’essa nera, posizionata sotto la carrozzeria di un’auto in un momento buio della giornata, potesse essere vista da chi non sapeva fosse lì.
La richiesta allo zio
Il giudice sottolinea poi che Caiafa ha avuto la lucidità di chiedere allo zio di recuperare l’arma (spingendolo a commettere un reato) e lo scooter lasciati sul luogo del delitto: «che senso avrebbe avuto – sottolinea il gip – recuperare l’arma se fosse stata rinvenuta per caso e non fosse stata riconducibile proprio a quei ragazzi e a chi quei ragazzi li aveva armati». In sostanza, sostiene il giudice, «tutta la condotta post factum tenuta da Caiafa dimostra che quell’arma non era stata trovata per caso». Inoltre, nessuno dei ragazzi presenti ha parlato di un ritrovamento casuale dell’arma.
La reiterazione del reato
Il giudice sebbene non abbia ritenuto sussistente il pericolo di fuga e quindi non ha convalidato il fermo, ha disposto la misura cautelare del carcere in quanto, a suo avviso, Caiafa potrebbe reiterare il reato e anche inquinare le prove qualora avesse la possibilità di entrare nuovamente in contatto con i suoi amici. Con i domiciliari, potrebbe, sempre secondo il giudice, proseguire l’attività di inquinamento probatorio già palesatosi con lo spostamento dell’arma, i vestiti buttati e la cancellazione delle eventuali impronte presenti sull’arma. In relazione allo scooter utilizzato per accompagnare Correra ferito a morte in ospedale, secondo gli accertamenti non appartiene come sostenuto da Caiafa all’amico deceduto ma sarebbe stato adoperato anche da persone ritenute legate alla criminalità.