Camorra, gli ordini dei boss consegnati nonostante le sbarre

Dai bigliettini ai microtelefoni, fino ai colloqui: così i capi delle cosche gestiscono l’organizzazione dal carcere

Le sbarre non bastano a frenare la comunicazione tra i vertici delle organizzazioni malavitose e gli affiliati. Bigliettini, ‘messaggeri’ e qualche volta addirittura microtelefoni, quasi tutti i metodi di comunicazione sono stati utilizzati. La voce della camorra sconfina, valica i muri alti del carcere e gli ordini arrivano ai gregari attraverso il passaparola di mogli e figli, attraverso lettere e pizzini, con biglietti nascosti nei panini o grazie ai cellulari introdotti furtivamente nelle celle attraverso i droni. Nel passato i capiclan detenuti affidavano le loro direttive ai messaggeri, li chiamavano «palomme», ma tutto evolve e tutto cambia.

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Si dibatteva nelle sedi politiche sul famigerato 41bis, quando i capi di mafia e camorra attuarono dal chiuso delle celle un proprio programma malavitoso, seguito dalla campagna contro i pentiti e dalla abolizione dell’ergastolo. Questa linea – come ebbe modo di rivelare ai magistrati Luigi Giuliano, l’ex re di Forcella all’indomani della sua clamorosa decisione di collaborare con la giustizia – è stata elaborata da alcuni capi di mafia (Bagarella, Riina e Madonia) e poi condivisa dalle altre organizzazioni. Per raggiungere l’obiettivo, soprattutto i camorristi avrebbero portato all’esterno le nuove direttive, ovvero una sorta di pax mafiosa, realizzando una tregua delle guerre di mafia e camorra.

Erano i tempi in cui i reggenti dei cartelli più potenti di mafia e camorra venivano confinati al regime di carcere duro. La camorra trovò il modo di arginare anche quelle limitazione. Mantenere la leadership e aggiornarsi erano gli obiettivi principali. A raccontarlo è stato sempre Loigino da pentito.

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I trucchi

L’ex capoclan spiegò ai magistrati come era possibile eludere i rigorosi divieti del carcere. Il collaboratore parlò di una potente colla con la quale venivano chiuse le lettere, rendendole impossibili da aprire senza distruggerle, realizzata artigianalmente attraverso la manipolazione di un medicinale lassativo. Tecniche di comunicazione.

Sempre Giuliano ha ricordato di aver scambiato messaggi con il boss della Sanità Giuseppe Misso nascondendo i fogli in un panino che veniva lasciato sulla panca del gabbiotto dell’aula di tribunale a fine udienza. Passeranno alla storia i pizzini trovati nel covo del mafioso Bernardo Provenzano, più moderna la scelta dei boss di Ercolano: bastava sintonizzarsi sulla frequenza 95.10, richiedere una canzone in stile neomelodico e accompagnarla con un messaggio, in codice rivolto agli affiliati. Senza contare Salvatore Petriccione, fondatore della Vanella Grassi che, sia pure da detenuto, era in grado di far pervenire all’esterno gli ordini attraverso i soggetti che si recavano a colloquio in carcere.

Il caso dei pizzini tra i pasticcini per Zagaria

Pizzini tra i pasticcini. Fu l’accusa mossa dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli a due presunti uomini di fiducia del boss dei Casalesi, Michele Zagaria nell’aprile del 2019. Secondo quanto emerso dall’indagine condotta dalla squadra mobile di Caserta in collaborazione con la Dia di Bologna e Firenze i due titolari di una catena dolciaria, avrebbero messo a disposizione della camorra una pasticceria di Casapesenna, nel Casertano, per la consegna di pizzini da far recapitare al padrino di San Cipriano D’Aversa durante la latitanza.

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Nel corso dell’indagine fu ricostruito il tentativo di infiltrazione nel tessuto economico-sociale dell’Emilia-Romagna da parte di imprese nate e operanti in Campania e l’intestazione delle stesse a prestanome al servizio del clan. Secondo la Dda uno, oltre ad ospitare il boss in casa sua e in quella dei famigliari stretti, avrebbe ricevuto dal padrino latitante, con cui era in società, un grosso finanziamento per ampliare l’attività commerciale della Srl. In questo modo sarebbe riuscito ad aprire vari punti vendita, in particolare sul territorio campano e napoletano, assumendo i parenti degli affiliati al clan.

Oltre ai dolci, le patatine

Oltre ai dolci anche le patatine. Questo è il metodo emerso a Pianura. Salvatore Romano, affiliato al sodalizio dei Mele dal 2013 e, oggi, collaboratore di giustizia ha riferito agli inquirenti della Procura Antimafia i ‘particolari’ della sua affiliazione al clan. Una decisione – ha riferito – presa quando comprese di essere finito nel mirino dei capi del gruppo Pesce-Marfella. Un personaggio, Romano, che conosce la mala di Pianura a tutto tondo, avendo militato, prima dei Mele, in diverse formazioni criminali.

«Nel 2006 facevo parte del clan Lago, nel 2013 sono entrato nel clan Mele, nel 2014, e fino al suo arresto, ho aderito al gruppo di Carlo Tommaselli e dal 2014 faccio parte del clan Mele-Romano fino al mio arresto avvenuto nel febbraio del 2017». Esperienze che gli hanno permesso di entrare in contatto con i maggiori esponenti della criminalità pianurese come Giuseppe Mele.

«Durante i colloqui dove è detenuto, uno di questi certamente quello di Terni, il Mele Giuseppe – riferisce Romano – riesce a consegnare ai colloquianti… delle lettere nascoste in una busta di patatine che apre e poi richiude e, poi, consegna al suo interlocutore che la porta fuori dal carcere. Un paio di queste lettere le ho viste personalmente e contenevano l’indicazione che io dovessi prendere le redini del clan sempre sotto la direzione del padre Luigi e del fratello Vincenzo».

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