Canetti: «Non basta la dedizione a fare il poeta, ci vogliono anche asprezze ritmiche»
Una stagione, un cartellone di spettacoli teatrali hanno bisogno di idee, di personalità e di personaggi in grado di sublimare ed articolare una narrazione complessiva che ha bisogno di un’idea «evidente» che sia in grado di ispirare e dare senso ad un palinsesto che coniughi e declini sceneggiature e storie, affinché si possa raccontare un libro, un racconto, una relazione tra personaggi, persone ed il mondo che li circonda.
Sul palcoscenico, nel suo esplicarsi narrativo, si definiscono caratteri e temperamenti, sentimenti e atteggiamenti, fatti storici ed effetti animici e psicologici. Sicchè per poter pianificare qualcosa che piaccia ad un pubblico vario c’è bisogno di genialità che traduca in traduzioni sceniche originali i Pirandello, Shakespeare, Ċechov, i Calvino o i Pound, o i contemporanei come Ionesco o Kundera, o ancora come Mario Incudine o Luca Barbareschi o Massini.
Da qui dipende il merito e/o l’insuccesso di idee e rappresentazioni, ovverosia di trame accattivanti, di storie avvincenti e di forme dell’arte teatrale con cui si racconta la vita e in cui contenere le invenzioni immaginifiche di una storia individuale e collettiva. Si mettono in luce, così, le compagnie teatrali, la protezione e le capacità dei committenti, i limiti ed il respiro dell’impostazione di un palinsesto che deve essere capace di superare insidie e di immaginare viaggi mentali, esistenziali, da tradurre in interpretazioni individuali e collettive, laddove, nelle ultime esperienze vissute, possano intervenire epidemie e ostacoli naturali tali da mettere a rischio stagioni, protagonisti e teatri, quando non si sia in grado di sintonizzarsi al comune sentire, ovvero di intraprendere nuovi percorsi scenici con provocazioni e sperimentazioni.
In questi casi si percepisce ciò che Elias Canetti esprime in una sintesi sublime ovvero che «Non basta la dedizione a fare il poeta, ci vogliono anche asprezze ritmiche». La medesima considerazione si può applicare alla direzione artistica di un palinsesto teatrale, laddove non è sufficiente l’idea ispiratrice, ma ci vuole la capacità organizzativa di declinare, in maniera equilibrata e durevole, il senso di un messaggio che si vuole lanciare in un processo creativo che mira a dare ed inquadrare una logica che da esteriore e pubblica deve diventare assimilazione intima, in cui si propone di avvicinare lo spettatore ad un orizzonte di storie e interpretazioni.
Questo è il teatro che va creato come momento plurale da contenersi in un programma complessivo in cui includere prosa intima e denuncia civile, provocazione intellettuale e poesia che induce l’immaginazione al coinvolgimento.
Beh … ecco che dare senso ad una serie di spettacoli significa anche rispecchiare e cogliere le tante sfumature su un tema, posto al centro del ragionamento organizzativo, che merita attenzione e proposte che rompano con la noia o la monotonia. Qui vengono incontro, opportunamente, le parole del critico teatrale Francesco Brusa, che chiariscono le ragioni di una contemporaneità che, necessariamente, nel teatro vada colta e declinata nei suoi profili multipli per il quale il «fare teatro» e programmarlo…
«È, al contrario, un momento di snodo effettivo, una micro-esplosione storica per cui tramontano definitivamente tutta una serie di modi precipuamente politici di «abitare» la scena, degli «stare» estetici che erano in tutto e per tutto, e direttamente, anche «etici».
Il teatro, al netto delle differenze dei diversi contesti socio-geografici, proverà da qui in avanti a dar conto di una tale rottura, a riannodare i fili di una unità, certo problematica, multiforme e non lineare, ma quasi universalmente percepita come perduta. Si tratta della crisi delle ideologie e, dunque, delle avanguardie, dell’eclissi di un’idea «forte» di regia (Strehler, Brooke, ecc.) così come dell’esaurimento di una forte tensione verso il superamento e lo smantellamento dei ruoli e delle gerarchie interne alla messa in scena, tra cui la regia stessa (Antonin Artaud, Carmelo Bene, ecc.)… in mezzo, per molte compagnie e molti artisti (in particolare attivi nel decennio dei ‘70, continuamente evocato nel libro di Valentini), la convinzione profonda che non ci fosse una vera e propria soluzione di continuità fra teatro e società, fra il dramma agito su di un palco e i gesti di contestazione e rivolta portati nel mondo.»
A questo servono gli spettacoli di denuncia civile che al Festival di Tindari a Patti (in provincia di Messina), diretto da Tindaro Granata, accostano sceneggiature in cui tra Gramsci e Borsellino, vi può riproporre e celebrare la commedia dell’arte che, certamente, induce al sorriso, ma che, coevamente, in un ilare «Don Chisciotte», messo in scena da «Stivalaccio Teatro», sublima la dimensione paradossale di una condizione schizofrenica in cui Sancho ed il suo padrone orbitano tra la realtà e l’immaginazione, sollecitando l’attenzione di uno spettatore che ride e riflette, partecipando allo spettacolo. In questo l’umanità, appagata, si distingue e trova ispirazione e ristoro, gioia e riflessione.