Tindaro Granata prende in prestito la voce della cantante, ripercorrendone l’ultimo concerto live
Di questo spettacolo di e con Tindaro Granata (direttore artistico di Tindari Festival che si svolge nel comune di Patti in provincia di Messina) si può percepire la costruzione di un’opera omnia in cui l’attore-regista distilla il meglio di sé, esponendo generosamente una narrazione, in cui le donne in un contesto claustrofobico, qual’è la condizione carceraria, mettono in luce patemi, sconfitte, aspirazioni, aspettative di una umanità malinconica e coraggiosa, brutale e animica, sacra ed al tempo stesso dissacrante.
In una sorta di riflesso prismatico colpito da un raggio di luce si rende poliedrica la femminilità, che non è solo un genere, ma è anche la versione plurale di un estro che traduce forza e sentimento, personalità e sfaccettata interpretazione femminile che si fa opera omnia in cui un senso profondo di sofferenza spinge ciascuna esistenza e ciascuna donna a gettare il cuore oltre l’ostacolo, oltre i muri, oltre le grate per potere continuare a sognare.
In questo viatico Tindaro Granata prende a prestito la voce di Mina, laddove in «Vorrei una voce» non è solo una questione di musica ripercorrendo i pezzi musicali dell’ultimo concerto live di Mina, alla Bussola, il 23 agosto 1978, ma l’autore-attore coglie il pretesto per consegnare la femminilità nel suo più alto contenuto quello della autenticità esistenziale e nel suo più denso di significato quello di spingere al sogno la femminilità «negata e/o annullata» dai tratti di vita violenta e disperata.
Così attraverso un progetto che vede coinvolte le detenute di alta sicurezza della casa circondariale di Messina si realizza uno spettacolo che vibra di riflessione compiuta, di descrizione intensa, di scrittura precisa. Qui giunge la sintesi del plot da parte dell’autore, Tindaro Granata, quando evoca e rinvia alla dimensione del sogno taumaturgico e purificatore, ove l’artista si esprime, per presentare la messa in scena: «Il sogno, infatti, è il fulcro della drammaturgia dell’autore siciliano: smettere di sognare significa far morire una parte di sé. Questo lavoro è dedicato a tutti coloro che non hanno perso la voglia di farlo». Questo anelito creativo fornisce l’ispirazione per incorniciare un mito, quasi prometeico, e renderlo plasticamente quale momento di indimenticabile traduzione scenica.
Ebbene in un «carcere di pensieri ed esistenze» le varie donne interpretano ciascuna una nota caratterizzante: Assunta e la sua vita intrisa di ‘Ndrangheta e terribile virulenza; Jessica la prostituita messinese che pur avendo avuto i figli, Massimo e Lavinia, da accidenti di percorso e con tanti pentimenti aspira ancora alla redenzione; Sonia, vocata alla pazzia che si ritiene vergine pur avendo tre figli; Vanessa munita di meravigliosa bellezza che tradisce il marito con il di lui fratello Salvatore. Certo ci sono tratti in cui l’ironia si afferma meravigliosamente quando si fa cenno al curatolo che evoca superstizioni di una mentalità archetipica, profonda, in cui i pretesti servono a rendere redimibile il legno storto dell’umanità.
In questa intensità scenica c’è lui, Tindaro Granata, che da l’idea, mirabile in una sorta di elevatissima dimensione in cui l’artista sublima il dolore delle personalità in cui si immerge, laddove ritrae psicologie differenti, volontà sfaccettate con i tempi giusti del primattore che si dimostra capace di elevare lo spettacolo e farlo ascendere a grande altezza morale e spirituale.
Nell’universo prigioniero del carcere così, attraverso la lettura di Tindaro Granata, emerge una evidente semplicità di varia umanità, che si esprime nello stare in un posto , malgrado la carcerazione, in cui la femminilità si rispecchia pure in un amore senza senso, nel mal di vivere oltre le sbarre, nella ri-scoperta della femminilità e dell’essere donne.