Al Festival di Tindari una maschera tutta italiana declinata con genio

di Rino Nania

Paolo Villaggio attraverso Tullio Solenghi con la direzione di Sergio Maifredi: tra sarcasmo e genialità

Una maschera tutta italiana declinata con genio. Questa potrebbe essere la sintesi di uno spettacolo che ha sorpreso gli spettatori per la professionalità istrionica di Tullio Solenghi, che si è dimostrato un vero mattatore da palcoscenico.

Nel terzo appuntamento del Festival di Tindari (Messina), che si mantiene ai livelli alti sotto la guida del direttore artistico Tindaro Granata, si è destata l’attenzione di un pubblico che è uscito dal Teatro Antico col sorriso sulle labbra. E questo già è un gran risultato, perché riscuotere il consenso e gli appalusi di un pubblico, abituato alle rappresentazioni classiche ed a letture importanti, significa già un buon viatico per il resto della stagione estiva con un cartellone di tutto riguardo.

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Nello spettacolo si è rappresentato la figura del percorso letterario e biografico del già genialmente riconosciuto Paolo Villaggio: un vero e proprio originalissimo interprete che esaltava nella dimensione ridicola quella verità umana, ma non troppo nascosta, in cui le debolezze ritraggono, meglio di qualunque altra connotazione, l’animo vigliacco nella sua traduzione autentica: quella del soggetto buono a nulla che riflette ed esprime disagio esistenziale ed incompiutezza umana.

Eppure attraverso i Fantozzi ed i Fracchia (famosissimi) si evoca una realtà, che con senso vivo, fornisce tutti gli elementi per delineare in un vissuto ciò che ci fanno incontrare le maschere di personaggi che indicano quanto farlocca e bugiarda sia la natura umana, che, con sarcasmo, dipinge le vanità, i vizi e, soprattutto, la disumanità cattiva che c’è in tutti noi.

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Viene fuori, nell’occasione, un teatro di scrittura che mette colore alla oralità (mai verbosa) e aggiunge le ali all’ascolto ed al piacere della risata. Solenghi, diretto da un indimenticabile, quanto meno per i nostri territori, Sergio Maifredi rappresenta, attraverso una sequenza di aneddoti sempre vivaci e originali, la figura di Paolo Villaggio. Laddove nell’esordire presenta il lato autoironico pieno di sarcasmo sui generi (maschile e femminile, commedia e tragedia) che andavano, nei suoi scritti, scarnificati e fatti riemergere nella loro reale dimensione: bulli, brutti, velenosi, impacciati nell’estrinsecare ciò che si ha dentro l’animo.

Certo, nello spettacolo, vi è pure il Villaggio aulico quello che richiama Gogol e la letteratura russa. Che accanto a Gilberto Govi e Carlo D’apporto e sceneggiato da Umberto Simonetta, Stefano Benni intinge le personificazioni sceniche di ilarità amara ed anche vera. E giova ricordare il passaggio del testo di una canzone scritto per l’amico Fabrizio de Andrè da titolo «Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers», in cui racconta il viatico della vita del Re, dedicata a combattere ed a illuminarsi d’amore, scoprendo spesso va a «puttane».

Si registra così un Paolo Villaggio intellettuale ma che, in quella dimensione mitica di Fantozzi, esalta il rutto libero e la compiaciuta risata quando Solenghi consegna le immagini del memorabile viaggio di ferragosto fatto da Fantozzi e la sua famiglia sulla famosa «bianchina» con a carico il «canotto».

Ma lo spettacolo, tenuto a Tindari, rende onore alla bravura dell’attore (Solenghi) e di chi lo ha sceneggiato (Maifredi). Vi è infatti un richiamo di Woody Allen, che con le sue citazioni mette in luce l’ironia ebraica, o pure la gioia di Villaggio nel fare scherzi ad esempio uno bellissimo fatto, a Taormina, al mago Silvan. Insomma Solenghi rappresenta in scena la biografia critica e collettiva attraverso un «Fantozzi» nella sua versione libresca. Seppur Paolo Villaggio diceva, nell’introduzione del testo: «Io non so scrivere in italiano.

Nel parlare mi arrangio, anche perché astutamente sposto sempre la discussione su cinque argomenti già collaudati: il passaggio dal socialismo al comunismo, nuovi esempi di cinema underground americano, il secolo di Luigi XIV, magia e ipnotismo, sud-est asiatico. Non sono ancora «franato» sull’astrologia, ma una volta ho parlato per un’intera sera di Godard, ma sinceramente l’ho fatto solo quella volta, ed ero quasi ubriaco».

Già nelle prime pagine dell’edizione del 1971 di «Fantozzi» edita da Rizzoli, Paolo Villaggio si presentava con il suo biglietto da visita: un’ironia che si faceva beffe dei luoghi comuni, sposata a un gusto fortissimo per l’affabulazione. Sicchè il ragionier Ugo Fantozzi era il «prototipo del tapino e quintessenza della nullità».

In questo quadro emerge l’accostamento di un registro umoristico e grottesco a un altro più profondo, patetico-tragico, è sicuramente un elemento tipico del meccanismo comico, ma in questo caso si può ipotizzare un collegamento con la predilezione che Paolo Villaggio aveva per la letteratura russa. Attraverso le sue caricature ci parla infatti di un’umanità sconfitta e umiliata, che quasi ha persino timore di sognare una rivincita nei confronti di un regime oppressivo e ottuso. In questo ritroviamo alcuni caratteri simili a certi personaggi dolenti creati da Dostoevskij, Tolstoj o Gogol.

La bellezza di Fantozzi (frutto del genio di scrittura di Paolo Villaggio) si evidenzia e sintetizza in un’ironica presa in giro di un intellettualismo falso, pieno di luoghi comuni e imposto dall’alto, ma non si esaurisce certamente in questo. In lui vi fu pure il rifiuto di una cultura alta in nome del divertimento popolare, la convinzione che un certo tipo di prodotto debba per forza essere difficile, elitario, noioso.

Certamente l’intento di Villaggio era destinato a magnificare una parodia colta, una volta esaurito il contesto in cui era stata pensata e realizzata, diventando il proprio opposto, generando un interdetto, come ha discettato qualcuno, «qualunquista e anti-culturale». Insomma al Teatro antico di Tindari è stata una serata per acculturarsi con senso critico. Un’occasione, certo, da non perdere, laddove lo spettacolo dovesse replicarsi.

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