La cassa comune delle estorsioni dei clan nell’area nord di Napoli

di Enzo Amato

Il pentito Lo Russo: le quote divise tra noi, Di Lauro, Licciardi e Bocchetti. Nel mirino le imprese e i fornitori di videopoker, i commercianti erano esclusi

«C’era una cassa comune cui partecipavamo insieme ai Licciardi, a Ciruzzo ‘o milionario e Gaetano Bocchetti. In tutto erano, quindi, quattro quote». Così Salvatore Lo Russo, ex boss di Miano passato dalla parte dello Stato ha descritto ai magistrati della Dda partenopea il funzionamento del racket nella zona nord di Napoli. Secondo quanto riferito dal collaboratore di giustizia, le principali famiglie camorristiche dell’area di Secondigliano avevano deciso una comune gestione delle estorsioni per evitare che nascessero contrasti tra i clan.

«A fine mese quelli della Masseria Cardone facevano le quote e ci mandavano i soldi – ha continuato Lo Russo, precisando che – a pagare erano per lo più le imprese che lavoravano sui cantieri ma anche coloro i quali fornivano i videopoker sul territorio». Esclusi dall’elenco degli esattori dei clan invece erano i commercianti, probabilmente lasciati in pace per evitare che le richieste vessatorie portassero a denunce e, quindi, all’intervento delle forze dell’ordine.

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Anche la contabilità era tenuta in modo tale da avere sempre sotto controllo il flusso di denaro che arrivava nella cassa comune. Lo Russo, infatti, ha parlato di “due liste diverse”, una per le estorsioni fatte alle imprese, l’altra per segna re le quote versate dai fornitori di “macchinette”.

La fine gestione ‘partecipata’

Eppure, nonostante la struttura simile a quella di un’azienda non mancarono i dissensi tra i soci, soprattutto per quanto riguardava la spartizione del denaro. Il primo a tirarsi fuori dalla gestione ‘partecipata’ delle estorsioni fu Paolo di Lauro che, come racconta l’ex padrino di Miano «non condivideva il fatto che a Nanuzzo Bocchetti, che lui considerava tutt’uno con i Licciardi, venisse riconosciuta una quota autonoma».

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Anche gli stessi ‘capitoni’, come sono soprannominati i Lo Russo negli ambienti criminali, ebbero da ridire sulla spartizione delle quote. I problemi, ha raccontato Salvatore Lo Russo, nacquero quando, dopo l’omicidio di Gennaro Esposito, cognato dei Licciardi, la quota che questi riceveva sul pizzo ai videopoker fu riconosciuta alla moglie.

Di questo Salvatore Lo Russo si lamentò personalmente sia con Vincenzo Licciardi sia, soprattutto, con Edoardo Contini, boss del Vasto e membro dell’Alleanza di Secondigliano, riuscendo ad ottenere che la quota assegnata alla vedova di Esposito, fosse alla fine abolita. Lo Russo, inoltre, ha spiegato che i soldi ottenuti dalle estorsioni erano destinati al mantenimento dei ‘carcerati’ e delle loro famiglie. Una spesa però che il solo racket non riusciva a coprire e che in alcune occasioni obbligò lo stesso padrino a mettere mano al portafoglio per aggiungere la differenza. La soluzione fu trovata quando «si decise che i proventi della piazza di spaccio di Miano andassero ad integrare questa cassa destinata ai carcerati». Lo Russo ha, infatti, raccontato ai giudici che i proventi delle estorsioni non superavano i 6000 – 7000 euro mensili.

Biagio Esposito

Le parole del boss pentito sono state confermate anche da un altro collaboratore di giustizia, Biagio Esposito esponente degli ‘scissionisti di Secondigliano’ subentrati ai Di Lauro nella spartizione delle estorsioni.

Esposito, in particolare ha riferito di un incontro tenutosi tra vari personaggi della camorra dell’area nord e un esponente della cosca Cimmino del Vomero. Scopo dell’incontro ha raccontato Esposito era di far entrare anche i ‘vomeresi’ nella divisione delle quote che, in cambio, avrebbero portato in ‘dote’ anche la zona collinare di Napoli. A opporsi però a questo ‘ampliamento’ fu Antonio Lo Russo, figlio di Salvatore e, all’epoca, incaricato di guidare il clan al posto del padre.

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