Bufera sul mondo dell’alta moda: Armani e Dior nel mirino dell’Antitrust

di Fabio Maresca

Aperta istruttoria per pratiche commerciali potenzialmente scorrette

È bufera su due delle più grandi maison dell’alta moda: alcune delle società che fanno capo ad Armani e Dior potrebbero infatti essersi servite di subfornitori che fanno ricorso a manodopera a basso costo, sfruttano i lavoratori con orari di lavoro oltre i limiti di legge e li impiegano in condizioni sanitarie e di sicurezza insufficienti. A puntare il dito contro i due colossi della moda è l’Antitrust che, anche a seguito dell’attività svolta dalla Procura e dal Tribunale di Milano, ha aperto un’istruttoria per pratiche commerciali potenzialmente scorrette.

Immediata la replica sia della maison Armani, che considera le accuse infondate, sia di Dior, che in una nota sottolinea come il gruppo condanni fermamente ogni comportamento scorretto.

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Gli approfondimenti

I funzionari dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, con l’ausilio del Nucleo Speciale Antitrust della Guardia di Finanza, si sono presentati alla porta delle società Giorgio Armani S.p.A. e G.A. Operations S.p.A. e anche presso la sede della società Christian Dior Italia S.r.l., pronti a avviare le loro ispezioni.

E hanno quindi deciso di avviare un’istruttoria «per possibili condotte illecite nella promozione e nella vendita di articoli e di accessori di abbigliamento, in violazione delle norme del Codice del Consumo». In entrambi i casi, spiega l’autorità, le società potrebbero aver presentato dichiarazioni etiche e di responsabilità sociale non veritiere, in particolare riguardo alle condizioni di lavoro e al rispetto della legalità presso i loro fornitori. Ma non solo: l’autorithy guidata da Roberto Rustichelli mette anche in discussione il fatto che le società avrebbero enfatizzato l’artigianalità e l’eccellenza delle lavorazioni.

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«A fronte di tali dichiarazioni, per realizzare alcuni articoli e accessori di abbigliamento, le società si sarebbero avvalse di forniture provenienti da laboratori e da opifici che impiegano lavoratori che riceverebbero salari inadeguati. Inoltre opererebbero in orari di lavoro oltre i limiti di legge e in condizioni sanitarie e di sicurezza insufficienti, in contrasto con i livelli di eccellenza della produzione vantati dalle società», precisa l’Antitrust.

Le risposte di Armani e Dior

In risposta all’indagine, il gruppo Armani «prende atto dell’inizio di un procedimento per asserite pratiche commerciali scorrette che sarebbero relative ad alcuni aspetti della comunicazione istituzionale». E ribadisce che le società interessate «assicurano piena collaborazione con l’Autorità procedente», ma «ritengono infondate le ipotesi delineate e sono fiduciose che gli accertamenti avranno esito positivo».

La maison Dior, da parte sua, scrive che nelle ultime settimane è stata informata dalle autorità giudiziarie italiane della scoperta di «pratiche illegali presso due dei suoi fornitori incaricati dell’assemblaggio parziale della pelletteria maschile». E «condanna fermamente questi atti scorretti», assicurando la piena collaborazione con l’amministratore giudiziario designato e con gli organi giudiziari italiani».

Le indagini della Procura di Milano

L’istruttoria avviata dal garante è scaturita anche dalle indagini aperte da mesi dalla Procura di Milano sul mondo della moda che ad aprile scorso hanno portato il Tribunale a disporre l’amministrazione giudiziaria per la Giorgio Armani operations, e a giugno, poi, lo stesso provvedimento per la Manufactures Dior. Secondo i giudici di Milano, il «meccanismo di sfruttamento lavorativo», basato su opifici clandestini, sarebbe stato agevolato «colposamente» sia dalle società del gruppo Armani sia da quelle di Dior, perché non contrastato.

Stando agli atti dell’inchiesta, un laboratorio clandestino poteva vendere all’intermediario-fornitore una borsa finita a poco più di 90 euro, che poi arrivava in negozio col marchio Armani a 1.800 euro. Nessuna delle società dei due gruppi è indagata mentre sono accusati di caporalato i quattro titolari «di aziende di diritto o di fatto di origine cinese».

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