Fini o della incoscienza responsabile

di Rino Nania

Due anni e 8 mesi, in primo grado per la vendita ai Tulliani. I suoi fedelissimi lo avevano già condannato

La vicenda più che vendetta di Silvio Berlusconi che ha utilizzato le sue armi mediatiche per “infangare” un avversario politico che lo aveva abbandonato per cedere agli ammiccamenti degli antagonisti del centrodestra, è l’esito del karma.

Oggi, difatti, il contrappasso dantesco assume le sembianze del karma ovvero quella sorta di effetto, in questo caso, negativo, laddove ogni azione, pensiero e omissione è sia causa sia effetto di un gesto apparentemente fuori controllo razionale.

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Secondo questa visione, religiosa e/o filosofica, tutte le azioni, i mancati adempimenti e i pensieri, prodotti da un individuo nel corso della vita, generano futuro e compensano, attenuano o incrementano gli effetti di quanto accaduto in passato.

Anche Gianfranco Fini oggi subisce la conseguenza di questo karma e di quanto accaduto a Montecarlo per la vendita di un appartamento della Contessa Colleoni che era stata proprietaria generosa di un bene donato al partito politico di Alleanza Nazionale e che, attraverso un sistema di operazioni clandestine, portò alla vendita dell’immobile ai Tulliani, suocero, moglie e cognato di Fini.

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Ebbene l’esito del processo di primo grado che vede Fini condannato della vendita dell’appartamento monegasco, secondo quanto accertato, sarebbe stato acquistato da Tulliani junior grazie ai soldi di Corallo (imprenditore frequentato dal leader politico) attraverso due società (Printemps e Timara) costituite ad hoc.

Difatti il coinvolgimento di Fini nell’inchiesta è legato proprio al suo rapporto con Corallo. Un rapporto, per la procura, che sarebbe alla base del patrimonio dei Tulliani. Quest’ultimi per gli inquirenti avrebbero ricevuto su propri conti correnti ingenti somme di danaro riconducibili a Corallo e destinati alle operazioni economico-finanziarie dell’imprenditore in Italia, Olanda, Antille Olandesi e Principato di Monaco.

Un potere esercitato per dinamiche domestiche

Al di là del dato giudiziario, che interessa solo gli addetti ai lavori, ciò che balza all’attenzione di tutti è che la vita politica di un personaggio, come Fini, si riduce adesso ad un gesto maldestro ed imprudente, frutto dell’idea male interpretata di un potere esercitato per dinamiche domestiche, secondo lo schema che il potere a volte ubriaca.

Ovvero come la politica e gli interessi generali (in questo caso riferiti alla massa di militanti che hanno donato la propria vita ai valori ed alle idee della destra) si riducano vergognosamente a meri e banali interessi familiari, che contraddistinguono la statura della personalità. Ecco che Gianfranco Fini paga così il prezzo per aver visto ed interpretato la politica come momento, che nudo e crudo, diviene fatto di esclusiva dimensione personale.

Quando invece, chi ha vissuto la militanza, quantomeno a destra, era da intendere come passione, sacrificio, impegno solidale e valorosa fede per difendere e propugnare valori che davano significato e forza ad esistenze che apparivano solo e spesso «figli di un dio minore».

La vera colpa di Gianfranco Fini, che probabilmente nella fase processuale di appello subirà una revisione, è stata quella di intendere il suo ruolo senza accompagnarlo con la necessaria responsabilità e senza tenere in dovuta considerazione l’umano e solidale impegno di una comunità che si riteneva diversa da qualunque altro mondo politico, perché si riteneva, nel coraggio della militanza, munita di un pensiero diverso: quello di essere genuinamente convinti che appartenere alla comunità di destra era bellezza in sé, perché era un impegno senza mai prevedere un tornaconto ed immaginando e professando l’impegno politico come gioioso e glorioso servizio rivolto agli altri.

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