Denunciò e fece condannare il killer di don Diana: «Lasciato solo dallo Stato»

di Antonella Di Martino

Augusto Di Meo non è mai stato riconosciuto come testimone di giustizia

Lasciato solo dallo Stato dopo aver denunciato e fatto condannare il killer di don Peppe Diana, costretto ad andarsene da Casal di Principe perché minacciato e ridotto allo stremo perché nessuno entrava nel suo negozio per fare delle foto. È un duro atto di accusa contro lo Stato quello lanciato in Commissione Antimafia da Augusto Di Meo, testimone oculare dell’omicidio del sacerdote don Peppe Diana, avvenuto il 19 marzo del 1994 a Casal di Principe (Caserta).

Di Meo non è mai stato però riconosciuto dalle istituzioni come testimone di giustizia – nel 1994 non c’era la legge, entrata in vigore solo nel 2001 – e non ha avuto alcun sostegno economico: unico riconoscimento quello di ufficiale al merito della Repubblica Italiana conferitogli dal capo dello Stato Mattarella e da qualche mese di consulente dell’Antimafia, presieduta da Chiara Colosimo.

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«Pensavo – ha detto oggi – che dopo aver denunciato il killer di don Peppe (Giuseppe Quadrano, ndr), lo Stato sarebbe venuto da me, ed invece sono stato abbandonato al mio destino. Dopo il delitto, per paura e perché minacciato, chiusi il laboratorio di fotografia in cui avevo cinque collaboratori e mi trasferii a Spello (Perugia), e da lì tornavo da solo, a mie spese, nel Casertano, per gli atti di indagine, come il riconoscimento dell’assassino, e per il processo al killer di don Peppe. Quando mi recavo al tribunale di Santa Maria Capua Vetere, mi definivano ‘spione’, ‘infame’. Vivevo nel terrore, mi sentivo solo, e nessuno mi ha mai dato consigli su come muovermi per aver qualche beneficio, così mi sono affidato ad un legale, Gianni Zara».

L’avvocato: nessun rappresentante dello Stato ha mai dato indicazioni

Proprio l’avvocato Zara, ex sindaco di Casapesenna – comune del Casertano dove è nato e ha operato, trascorrendo parte della latitanza, il capo dei Casalesi Michele Zagaria – racconta alla Commissione che «la domanda per far riconoscere Di Meo come testimone di giustizia fu presentata in ritardo rispetto ai termini di legge: a ciò non ci siamo opposti, perché i termini erano effettivamente trascorsi, ma la cosa grave è che nessun rappresentante dello Stato ha mai dato indicazioni sulla strada da percorrere a Di Meo, che al momento del delitto era un ragazzo impaurito, che sicuramente non pensava ai benefici che poteva avere, ma solo a fare giustizia, cosa che è riuscito ad ottenere».

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«Pensammo così, nel 2017 – prosegue il legale – di percorrere una strada diversa, cioè usare la legge che tutela i familiari delle vittime innocenti di camorra identificando il testimone come vittima indiretta. La prefettura di Caserta, però, su input del ministero dell’Interno, ha chiesto a Di Meo di ricostruire le parentele fino al quarto grado della famiglia di don Peppe Diana, per verificare eventuali legami familiari con esponenti del clan, una richiesta anomala e impossibile da concretizzare, perché c’è una questione di privacy, così ci siamo fermati, e ciò nonostante il dirigente della prefettura avesse incontrato Augusto manifestandogli il suo sostegno, almeno a parole. Peraltro Augusto le sue parentele fino al quarto grado le aveva ricostruite informando la prefettura».

Di Meo si emoziona più volte durante l’audizione, dice che oggi Casal di Principe è diversa, però un mese fa ancora in un bar mentre era con un cliente, delle persone lo hanno visto lasciando il locale. «Vanno camminando i diavoli», ha detto una di queste persone, ricorda Di Meo: «eppure non smetterò mai di incontrare i ragazzi e dir loro di denunciare, di non voltarsi dall’altra parte come abbiamo fatto io e don Peppe».

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