Dov’è finita la cosiddetta egemonia culturale della sinistra?

di Rino Nania

Ma poi, era davvero tale? Forse è il caso di chiedere lumi a “Chi l’ha visto?” e Federica Sciarelli. Chissà che non lo sappiano

La sinistra che si aggrappa alla teologia politica e che la si intenda spiegare coniugando Mario Tronti con Jacob Taubes, là dove la sensibilità, la fede ed il senso di appartenenza perde di vista la propria bussola rischia di non condurre da nessuna parte: o meglio porta a domandarsi: dove sia andato a finire il raziocinante illuminismo, la visione riformatrice di una sinistra che scarnificava la realtà per assegnarle altri paradigmi ed un impianto sociale rivoluzionario per diminuire diseguaglianze e dare merito ad un’umanità che ricerca e scopre un’altra dimensione in un mondo in cui non si deve solo, capitalisticamente, accumulare.

Nell’articolo di Goffredo Bettini sull’ESPRESSO di domenica 9 luglio 2023 si rintraccia certamente la sollecitazione a nuove speculazioni se la si inquadra in un dibattito da vivere tutto a sinistra secondo cui si vuole rinnovare un pensiero nel segno di un redivivo socialismo, che non si sa bene con quali caratterizzazioni.

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Qui bisogna soffermarsi e vedere se la pretesa azione politica che si deduce e si intende organizzare e indirizzare sia capace di definire valori e distinzioni, meriti e rischi, e stabilire se scegliere Marx o Proudhon, ovvero le esercitazioni ideologiche ovvero la mistica romantica del socialismo.

Certamente ogni azione politica, vista alla maniera di Bettini, quindi, anche come svolgimento di pensiero, è teleologica, ovvero finalizzata a trasferire i momenti di concepimento, immaginoso e concettuale, in traduzioni tangibili e storicamente verificabili. Non è certo una fede o una rediviva teologia di impianto trontiano (nel senso di Mario Tronti, intellettuale operaista a cui si aggrappa l’autore) che possa aiutare lo sviluppo ideale di una sinistra, a meno che non si volesse far rivivere una sorta di operaismo, là dove gli operai siano da intendersi ormai scomparsi.

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Ma questo assume i contorni di un paradosso. Laddove il contesto, per una intelligenza sopraffina come quella di Bettini, dovesse condurre o aiutasse, inverosimilmente, a ridefinire un «peculiare» momento di sinistra, un’aggiornata tavola valoriale capace di concretizzarsi in sostanza viva ed in grado di rabberciare le ferite ed i fallimenti di un’anima, più che ideologica, esistenziale dell’attuale rappresentazione di sinistra.

Qui Tronti mi appare già datato quando si esprime con le seguenti ri-definizioni: «L’anima la ritrovi lì, nel conflitto sociale, mano nella mano tra partito e sindacato. La condizione del pluriverso dei lavori non è una delle emergenze e urgenze cui riservare attenzione nelle iniziative, è il centro pulsante della lotta politica, intorno al quale tutto il resto deve ruotare.»

Oggi, di contro, i corpi intermedi plurali e pulviscolari (siano essi organizzazioni culturali, partitiche o movimentiste) esigono attenzioni plurime e respingono società ad una dimensione. Per cui le moltitudini, in questa declinazione ed in questo ambito, vanno inquadrate in maniera tale da non essere preda di una contrapposizione malata che usa il «green» per esasperare nuovi consumi e portare la vita verso una nuova versione di capitalismo senza solidarietà, là dove si afferma il consumo per il consumo. Ovvero di utilizzare la politica di «genere» come lotta al riconoscimento di una pluralità di genere per esasperare la conflittualità sociale, che rimane fine a se stessa.

Per Bettini, alludendo a Taubes, la politica in quanto teologia ed in quanto preghiera dovrebbe orientare in modo tale che «pregando si grida, si geme, si prende d’assalto il cielo». Questa è certamente una suggestione che aiuta ad eccitare le attenzioni ma non serve a costruire un pensiero solido, in cui partendo dalla Lettera ai Romani di san Paolo, il testo massimo su cui si dividono le acque fra la Legge e la Grazia, fra ebraismo e cristianesimo, fra tradizione ellenica e tradizione giudaica conduca alla cristallizzazione di tutti i suoi temi essenziali che afferiscono alla mobilitazione mediante l’appartenenza ed il dialogo strumentale alla ribellione rispetto all’ordine costituito (come ai tempi del ’68), nonché colga l’occasione per un ultimo emozionante confronto con l’antagonista che più lo aveva provocato a pensare: Carl Schmitt.

Ebbene su questo punto ogni considerazione diviene momento «plastico» di una dilatazione del plesso argomentativo e filosofico del confronto tra due sensibilità opposte a meno che si voglia elevare il tutto ad arbitrario colpo di maglio che vuole sciogliere il nodo di Gordio, rappresentato oggi da una pervasiva omologazione all’insegna dell’assenza di valori e idealità, soprattuto all’attuale stato della sinistra.

Grava sull’autore, in questo caso su Goffredo Bettini, il compito di dare ordine alle idee e definire, facendoci capire di più e meglio, riuscendo a trovare dei punti di cucitura tra senso della realtà e valori assoluti, oggi per lo più spariti.

Questo per ovviare alle rimarchevoli incongruenze non facilmente riducibili. Di certo è assolutamente vero quanto esplica Bettini sui principi, richiamando Papa Francesco, ma la declinazione prosaica, riformatrice, tangibile mi sembra rispondere più alla creazione di un ulteriore «iato» tra sani, sacri ed assoluti valori ed un deficit palpabile nella traduzione riformatrice.

Alla sinistra oggi manca questa oggettiva traducibilità sociale e condivisa. Giacchè, nel sistema, come europeisticamente organizzato, del patto di stabilità e del pareggio di bilancio, mi sembra assai difficile che si possa mettere mano, partendo da sinistra, ad una «ricucitura» che colmi le evidenti aporie di pensiero e di politica. A sinistra adesso manca, più che mai, il «pragma».

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