Borsellino, una dirittura morale e personale al servizio della Giustizia

di Rino Nania

Al Tindari Festival «La grande menzogna» di Claudio Fava dedicata al magistrato

Le narrazioni sono lo specchio di percezioni personali e di ciò che ne consegue e/o di tutte le elaborazioni che queste riescano a generare. Nel caso di Paolo Borsellino vi è un prima costituito da una dirittura morale e personale ostacolata nel suo mettersi in gioco e nell’esercizio del suo ruolo di magistrato in un’attività giudiziosa nello svolgimento del ruolo a servizio dell’interesse pubblico, della perseguita sicurezza sociale, fatta al fine di portare a compimento la legittima protezione da rendere nei riguardi di quanti pretendono istituzioni imparziali e corrette, dei tanti che vogliono tutele per i fragili, di coloro che desiderano solidarietà diffuse per rafforzare lo stare assieme di uomini e donne.

Forse ciò che rappresenta Paolo Borsellino non è solo questo, ma questo è già tanto ove si consideri che il riferimento morale di Paolo Borsellino, dopo la sua morte, rimane intatto ed ispira ancora tante esistenze e tanti che ancora vedono nel suo sacrificio la forza di valori e di azioni che servono a costruire comunità umane sane e/o civili e senso di appartenenza in grado di rendere efficace e fiduciosa la dialettica tra cittadini e istituzioni.

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Qui Borsellino serve a comprendere cosa sia successo dopo la sua morte, quanto sia stata squassante la sua scomparsa, quanto, ancor oggi, rimane interessante e meritorio da capire partendo dalla sua memoria.
A questa ulteriore fase, il tempo del «poi», ci pensa lo spettacolo di Claudio Fava, che, nel suo racconto teatrale contenuto ne «La grande menzogna», fornisce e rappresenta, come l’autore dichiara, un’invettiva alla liturgia delle commemorazioni, rivolgendo un appello alla società civile affinché si svegli, sí da prendersi le sue responsabilità e a non accontentarsi di indossare una volta l’anno la corona di spine e di portare in processione i martiri.

Lo spettacolo/denuncia è un violento attacco a non rassegnarsi di fronte alle mancate verità sul più grande depistaggio che la storia della Repubblica Italiana abbia mai subito. Certamente lo spettacolo, scritto benissimo, riserva taluni fraseggi di rara e ironica amarezza a cominciare dai primi passi quando David Coco, che impersona il giudice ammazzato nella sua versione post-mortem, fa dire a Borsellino, accanito fumatore, «Io non sono morto per le sigarette».

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E da qui viene fuori un’altra storia, quella che degli eventi avvenuti nelle secrete stanze, dietro le quinte, fatta di retropensieri e di sospetti. Quando, da subito, dai fumi dello scoppio deflagrante compare una persona in abiti civili, uno del Sisde, dei servizi segreti, lindo pulitissimo, che fa da contraltare alle lordure di palazzo. Sicuramente il rovistare sintonizzato, concomitante all’attentato, di più uomini presso l’ufficio della procura di domenica, così come presso la villetta a mare visitata da chissà chi. In quel mese di luglio Paolo Borsellino, amando il ciclismo, seguiva il Tour de France, che si inerpicava sui Pirenei, ai confini con la Spagna, laddove il ciclista Indurain dava il meglio di sé.

Quell’Indurain che Borsellino, con l’iconografia antropologica, tutta palermitana, vedeva nel fisico, piccolo ed emaciato nel viso, come venditore di sigarette di contrabbando. Tuttavia, come richiamato prima, è il depistaggio che viene messo a fuoco dall’autore/regista Fava. Poiché secondo questa sua interpretazione la terribile carneficina doveva essere ridotta e ricondotta ad una semplice vendetta mafiosa.

E tra i tanti, non sempre identificati pupari, andava trovato un pupo come Scarantino: soggetto senza arte e né parte in termini di rilevanza e caratura mafiose, ma che poteva essere utile nelle sembianze, da subito oggettivamente poco credibile, come pentito/testimone che assumeva il compito di raccontare come era stato concepito l’ordine di Totò Riina, con l’applauso di tutti gli altri capibastone, di ammazzare il Giudice pericoloso. Nello spettacolo rileva evidente quello che Fava fa dire al magistrato, quale epilogo di una strategia, probabilmente voluta e imbastita nelle secrete stanze di palazzo: «Avete preso la mia morte e ve la siete messa in testa come una corona di spine». Così da divenire, l’ucciso, una sorta di «santino da impuntarsi sul cuore».

Tuttavia la tracciata e sceneggiata imbastitura non resiste ad un esame più approfondito e soprattutto non tiene di fronte all’esame di coscienza di Scarantino che prima alla rete televisiva «Italia Uno» e poi nel confronto investigativo con il boss Salvatore Cancemi non riesce a mantenere salde le sue dichiarazioni, già probabilmente suggerite e ben orientate. A questo punto è Cancemi, mafioso vero, a smentire sostanzialmente il pentito, facendo venire fuori la voluta distorsione, la macchinazione indecente, l’orditura di chi prova ad uccidere per la seconda volta Paolo Borsellino. Infatti bisogna ammazzare due volte, la prima con la morte fisica e poi con la strategia ingannatrice dei «tragediatori».

Qui, però, vacilla la verità dignitosa e si afferma il depistaggio, si da far concludere allo sceneggiato Borsellino, rivolgendosi alle inutili e vuote celebrazioni, anelando al «La verità… dedicatemi la verità» Qui sta tutto il significato, forte ed autentico, dell’opera meritoria di Claudio Fava, interpretata in una brillante prova dell’»one man show», David Coco: ovverosia di fronte ai colletti bianchi dalle anime nere bisogna combattere così, assimilando e tramandando, anche teatralmente, la consapevolezza per quanti ancora intendano imbracciare le armi della verità e dell’intelligenza contro tute le mafie.

Una chiosa finale si rende necessaria per dare merito a chi merita, e cioè a Tindaro Granata, direttore artistico del Tindari Festival, che nell’edizione del 2023 con questa seconda prima nazionale (dopo «Quando venne buio» racconto dalle Termopili) è riuscito a dare smalto ad un cartellone che – pieno di contenuti, arte e sensibilità – riesce a mettere in luce attori, che danno prova di grande capacità scenica, di scritture teatrali originali, di intense qualità narrative. A Tindaro Granata alla sua nitida direzione va riconosciuto valore. Un augurio a lui va fatto, perché la sua linfa creativa rimanga ancora per lungo tempo intatta ed inesauribile.

Setaro

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