A votare contro solo Polonia e Ungheria
«Un accordo impossibile ma fattibile», sussurrava un diplomatico alla vigilia del D-Day sulla migrazione al Consiglio Affari Interni del Lussemburgo. E il pronostico ha trovato conferma. I 27 hanno raggiunto un testo di compromesso sui due pacchetti di norme che costituiscono il cuore del nuovo Patto dopo ben 12 ore di maratona negoziale. Alla fine a votare contro sono state solo Polonia e Ungheria. «Si tratta di un grande giorno», ha sentenziato la ministra svedese per l’Immigrazione Maria Malmer Stenergard, presidente di turno.
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L’Italia ha giocato un ruolo decisivo, ponendo con forza le proprie richieste per poi chiudere la partita senza sfilarsi all’ultimo metro. «Abbiamo avuto una posizione di grande responsabilità, trovando corrispondenza da altri Paesi e ottenendo consenso sulle nostre proposte», ha dichiarato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. «Riteniamo che sia un giorno in cui parte qualcosa e non solo sia un giorno di arrivo». D’altra parte una cosa è emersa molto chiara fin da subito: senza l’Italia la Svezia non avrebbe forzato la votazione a maggioranza qualificata. «L’obiettivo è ottenere un accordo che sia reale nella pratica – notava una fonte con accesso al tavolo – non solo sulla carta». L’attenzione allora si è concentrata sui dettagli più caldi.
La procedura d’asilo e la gestione dell’asilo e della migrazione
La decisione presa ruota infatti intorno alla procedura d’asilo (Apr) e alla gestione dell’asilo e della migrazione (Ammr) – cioè non l’intera riforma, che è mastodontica e conta diverse misure ancora in corso di esame. L’Apr prevede l’istituzione di un percorso rapido con regole condivise europee per trattare le domande di asilo che provengono da quei Paesi con un basso grado di accettazione – sotto il 20% – e la creazione di una certa quota, attraverso una formula, secondo la quale ognuno dei 27 è obbligato ad applicare la procedura accelerata. Traduzione: controlli e responsabilità. Bene.
Ora l’Ue si doterà di una capacità di gestione fissata a 30mila ‘posti’ con un coefficiente di moltiplicazione progressivo di 2 3 e 4 nell’arco di tre anni. A contare non è il migrante singolo ma il ‘posto’ e siccome la domanda di richiesta asilo dovrà essere evasa entro 12 settimane si calcola che il primo anno il tetto sarà di 60mila persone, poi 90mila e infine 120mila. Il tutto ripartito tra i 27 sulla base di Pil e popolazione. Sarà poi la Commissione a stabilire se un Paese ha bisogno della solidarietà in caso di crisi (boom di arrivi).
In quel caso sarà esentato dalla procedura di frontiera Ue e potrà accedere al bacino di 30mila ricollocamenti, da ottenere in forma pratica oppure con un finanziamento da 20mila euro per ogni migrante non trasferito. La novità sta nel fatto che l’Italia ha ottenuto che questi denari confluiscano in un fondo gestito da Bruxelles per «attuare progetti concreti per la cosiddetta dimensione esterna». Insomma, Roma non voleva che i Paesi del sud diventassero il «centro di raccolta degli immigrati per conto dell’Europa».
Ma la solidarietà si trova anche in altri passaggi
Come la responsabilità ridotta – 12 mesi invece di 24 – per le persone salvate in mare con operazioni SAR che poi presentano (e ottengono) la protezione internazionale. Poi c’è un’intesa sulle misure di sostegno finanziario per la realizzazione operativa (comprese infrastrutture) delle procedure di frontiera. Il passaggio più controverso però, che ha rischiato di far saltare tutto, è stata la possibilità di stilare accordi con Paesi terzi, diversi da quelli di origine, dove inviare i migranti una volta negata la protezione. Alcuni Stati membri, come la Germania, volevano un’interpretazione molto stretta, altri più lasca.
Un particolare non da poco perché permetterebbe di liberare molto più velocemente gli hot-spot e dunque snellire il sistema. L’Italia, sulla questione, è stata sostenuta da diversi Paesi, come ad esempio l’Olanda. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni non a caso esulta. Per lei l’unico modo di affrontare i problemi dati dalla migrazione «è risolverli alla partenza» e dunque si dice «soddisfatta di essere riuscita a far capire che c’è un modo di affrontare la questione insieme». Dunque legando la questione della dimensione esterna a quella interna. L’intesa prevede ora una clausola di revisione da 1 a 2 anni, a seconda delle parti. Che garantisce tutti: se funziona, si tireranno le somme.