I commentatori occidentali rischiano di sottostimare due dati che potrebbero rivelarsi determinanti
Rimandato al ballottaggio del prossimo 28 maggio il responso finale del voto in Turchia quando Erdogan dovrà affrontare lo sfidante alla presidenza, attestato al 49.52% delle preferenze, mentre il leader dell’opposizione Kemal Kilicdaroglu è al 44.76%.
Intanto Erdogan ha però ottenuto la maggioranza in Parlamento. La coalizione guidata dall’Akp ha conquistato 324 dei 600 seggi. Di questi 268 saranno occupati da parlamentari del partito Akp, 51 dal partito nazionalista Mhp e 5 dal partito Refah. La coalizione di opposizione guidata dai repubblicani del Chp, il cui segretario è proprio Kilicdaroglu, ha conquistato il 35% dei voti e un totale di 211 parlamentari, 167 saranno del Chp e 44 dei nazionalisti alleati di Iyi parti.
Supera la soglia del 10% la coalizione di sinistra formata dai filo curdi di Hdp, che si sono presentati con il simbolo di Sinistra Verde e hanno conquistato l’8,75% dei consensi che gli consente di piazzare 62 parlamentari, mentre altri 3 seggi andranno al partito dei lavoratori, nato da una scissione dal partito comunista turco e alleati dei filo curdi all’interno della medesima coalizione.
Già si conoscevano le sottigliezze bizantine, alla luce di queste elezioni turche che hanno compreso lo scrutinio presidenziale e quello per le legislative. Le malizie ottomane però non ne sono assolutamente da meno.
Per la prima volta dopo quasi vent’anni di califfato, Recip Erdogan dovrà affrontare il secondo turno da una posizione che se ha permesso al suo partito Akp di conservare la maggioranza in Parlamento gli ha dato meno di 4 punti percentuali sul suo sfidante.
I commentatori occidentali stanno analizzando i risultati del primo turno ma rischiano di sottostimare due dati che potrebbero rivelarsi determinanti: il primo riguarda la tradizionale dicotomia tra il voto delle città e quello delle zone rurali. I giovani cittadini vogliono un cambiamento che i loro connazionali della Turchia periferica non vogliono. Il secondo dato è che l’insieme del corpo elettorale turco è nazionalista, compresi i Curdi, e nella coalizione di opposizione. Il cemento nazionalista, alla fine, manterrà la Turchia centrata sulla dottrina neo-ottomana che mira chiaramente ad essere dominante dal mar nero all’Atlantico.
Le malizie ottomane summenzionate, dimostrano l’attitudine di Erdogan sin dai primi anni del suo “califfato”: riavvicinamento ai cristiani, tolleranza nei confronti degli alàwiti, musulmani sciti, e persino dei Curdi, ovvero le sottigliezze di poter trattare con tutte le minoranze per diventare il sultano di un impero a cui doveva ridare grandezza. Risultato? La nascita di un nuovo cittadino per il quale è veramente turco solo chi parla il turco e chi è di religione sunnita mentre alawiti, praticanti un Islam deviato, e curdi non sono che turchi fasulli che conviene eliminare. Quanto ai cristiani ed agli ebrei, vengono considerate solo minoranze da preservare con parsimonia.
I media occidentali che lo hanno contrastato in campagna elettorale oggi dovrebbero piuttosto studiare il voto dei turchi della diaspora, la gran massa di emigrati in Occidente che ha già votato massicciamente per il sultano Erdogan ed analizzarne le ragioni.
Lo hanno fatto forse perché – al contatto delle nostre società progressiste con i loro matrimoni omosessuali, le loro fluidità di genere, il loro femminismo esasperato si sono chiuse a riccio rispetto alla loro integrazione, meglio preferendo un’assimilazione anonima – hanno ritenuto e ritengono che che la civiltà occidentale sia arrivata ad uno stato di morte cerebrale per cui il loro voto risulterà determinante per riportare Erdogan, la prossima domenica, a capo dello Stato turco. Invece di condannarli a priori, sarebbe più opportuno cercare di comprenderli.
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