Sciolto nell’acido per la relazione con la nuora del boss: presi i mandanti

di Chiara Langella

Sono elementi di spicco del clan Licciardi

Doveva essere fuori portata per tutti la moglie di Giovanni Licciardi, figlio di Gennaro, detto «la scimmia», fondatore dell’omonimo clan dell’oligarchia malavitosa napoletana chiamata «Alleanza di Secondigliano». Ma Salvatore Esposito, per tutti «Totoriello», volle cominciare lo stesso una relazione extraconiugale con quella donna. Un grave errore che lo portò a una morte terribile: ucciso a colpi di pistola, per ordine dei Licciardi, e sciolto nell’acido affinché nessuno potesse piangere le sue spoglie.

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A scoprire quel ‘delitto d’onore’, un cold-case che risale al 27 settembre 2013, sono stati i Carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Napoli, che da una frase pronunciata durante una conversazione intercettata nell’ambito di un’altra indagine hanno intuito la fine di Esposito. Il Ros di Napoli ha ricostruito l’accaduto e arrestato tre dei quattro mandanti, elementi di spicco del clan Licciardi: Paolo Abbatiello, Gianfranco Leva e Raffaele Prota (quest’ultimo già in carcere per altro), di 57, 66 e 57 anni. Il quarto mandante dell’omicidio è ritenuto invece il boss Giuseppe Simioli, 57 anni, collaboratore di giustizia: per lui il gip non ha disposto l’arresto, ma sarà lo stesso giudicato per l’omicidio.

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La ricostruzione

Esposito venne attirato in trappola: fu simulato un incontro estemporaneo e con la scusa di andare a trovare il marito di Maria Licciardi, sorella di Gennaro, anche lei arrestata qualche anno fa dal Ros, deviarono il percorso per consegnare Totoriello ai suoi killer. Tutto avvenne nell’impervia zona delle cave di tufo Chiaiano. Lì venne ucciso a colpi di pistola e poi sciolto in un bidone di acido portato ad ebollizione con un bruciatore.

Ad eseguire gli ordini dei mandanti, secondo quanto emerso dalle indagini, furono Carlo Nappi, Crescenzo Polverino, Giuseppe Ruggiero e Alessandro De Luca, tutti già in carcere ma per un altro omicidio. Per la loro incriminazione, però, il giudice ha ritenuto che non bastano le dichiarazioni di un solo pentito, vale a dire Simioli. Esposito a un certo punto capisce che il copione scritto aveva come epilogo la sua morte: comincia a sudare. I suoi aguzzini, tutti armati di pistole per stroncare sul nascere una eventuale fuga, riescono a dissimulare le loro intenzioni e per lui non ci sarà scampo.

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Secondo quanto appurato dal Ros, Abbatiello, Leva e Prota, dopo avere scoperto la tresca e averla rivelata ai familiari di Giovanni Licciardi, chiesero a Giuseppe Simioli, reggente del clan Polverino di Marano di Napoli, la disponibilità a compiere il delitto con i suoi affiliati e nel territorio rientrante nella sua competenza geo-criminale. E così fu: la tecnica adoperata per far sparire il corpo, inoltre, risulta essere la stessa usata da Cosa nostra nel 1984 per distruggere, per conto del boss Lorenzo Nuvoletta, i cadaveri di Vittorio e Luigi Vastarella, Gennaro Salvi, Gaetano Di Costanzo e Antonio Mauriello.

Per quegli omicidi maturati a Marano di Napoli il 19 settembre 1984 nell’ambito della guerra di camorra tra le famiglie malavitose Gionta-Nuvoletta e Alfieri-Bardellino, è stato condannato in via definitiva, nella veste di mandante, il defunto «capo dei capi» della mafia siciliana Salvatore «Totò» Riina.

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