Per fare un po’ di poesia rende tutta la ricostruzione con un retrogusto di sconfitta
Ogni 5 anni il Nanni nazionale, già vanesio e velleitario girotondino, si impegna a raccontare un altro tassello della crisi della sinistra, di un amore che col passare tempo si spegne, di una passione che viene tradita dalla scelta da parte di uomini che non sanno coltivare fino in fondo il desiderio della libertà, di un’idea tutta finta in cui la sinistra italiana, che ha inteso nel ‘56 con la rivoluzione ungherese di staccare il legame col comunismo russo, provando a distinguersi con dei manierismi dal ceppo russo del PCUS.
Eppure tutto questo è raccontato da Nanni Moretti in maniera rapsodica in cui l’artista mette tutti i tic del classico “morettismo” fatto di pantaloni di velluto, di sabot che non piacciono, di interventi singolari su moltissimi passaggi della sceneggiatura (dal film diretto da altri regista e produttore), di allusioni rarefatte in cui si affermano le interpretazioni di Margherita Buy e di Silvio Orlando.
Tuttavia al dì là di questo la conclusione cinematografica e della narrazione politica (attraverso la marcia egemonizzata dal comunismo della settima arte tra musica e cinematografia) emerge e viene scritta la fine di un’idea della politica, di un amore e soprattutto di un cinema morettiano che già da tempo comincia ad annoiare, che fa sbadigliare, che rende tutto posticcio perché replicandosi, in molti atteggiamenti ed in altrettante letture interpretative, fa il verso di se stesso e di tutte le puntate precedenti.
Così la rappresentazione di una vena malinconica senza speranza, che va inaridendosi, anche nel tentativo di fare un po’ di poesia rende tutta la ricostruzione con un retrogusto di sconfitta: arida, finta, vuota e senza riuscire a lasciare alcuna traccia di originalità.
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