Una «difficoltà» che ha spinto gli inquirenti a contestare l’ipotesi di reato di depistaggio
Ha raccontato ai giudici le difficoltà incontrate per sequestrare le immagini della videosorveglianza interna che testimoniavano le violenze sui detenuti, video poi determinanti per l’attribuzione delle responsabilità ai singoli agenti.
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E’ stato l’ex comandante della compagnia dei carabinieri di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) Emanuele Macrì, attualmente al comando della compagnia di Cagliari, il primo teste, ieri, al processo (in corso davanti alla Corte di Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere) per le violenze ai danni di detenuti avvenute il 6 aprile 2020 nel carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere in cui sono imputati in 105 tra agenti della polizia penitenziaria, funzionari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e medici dell’Asl di Caserta in servizio nella casa circondariale al momento dei fatti.
Una «difficoltà», quella riscontrata dal comandante, che ha spinto gli inquirenti a contestare l’ipotesi di reato di depistaggio all’allora capo del Dap in Campania Antonio Fullone, e agli ufficiali della penitenziaria intervenuti nel carcere casertano, per «cancellare» le prove dei pestaggi, cristallizzati nelle immagini delle telecamere interne. «Il 10 aprile 2020 – riferisce Macrì – dopo aver ricevuto la delega dalla Procura ad indagare su quanto avvenuto il 6 aprile, inviai i miei collaboratori al carcere per le immagini delle telecamere, e fu detto loro che il sistema di videosorveglianza interno, in particolare del reparto Nilo dove erano avvenute le violenze, non funzionava».
Le note dei malfunzionamenti
Secondo il racconto del comandante Macrì, il giorno dopo, l’11 aprile, i carabinieri tornarono nel penitenziario, dove acquisirono le note inviate dal carcere alla società che faceva la manutenzione delle telecamere, in cui si evidenziava il malfunzionamento degli impianti. «Sentimmo immediatamente – spiega l’ex comandante dei carabinieri di Santa Maria Capua Vetere – a sommarie informazioni un ingegnere della società che si occupava, per conto del ministero, delle telecamere di videosorveglianza, il quale ci disse che dalle prime verifiche fatte da remoto, non risultavano anomalie nel sistema di videosorveglianza del carcere».
I carabinieri tornarono in carcere e accertarono che al primo piano del reparto Nilo le telecamere funzionavano, al secondo era staccato un cavo, ma una volta riattaccato gli impianti avevano ripreso a funzionare, mentre al terzo e quarto piano tutto era regolare. «Il 14 aprile decidemmo, viste le difficoltà nel ricevere le immagini interne, di sequestrare l’intero impianto di videosorveglianza del carcere», ha poi riferito Macrì alla corte.
Il carabiniere ha quindi sottolineato «di non aver avuto alcuna contezza di quanto accaduto il 6 aprile almeno fino al giorno 9 aprile, quando i familiari dei detenuti picchiati fecero una manifestazione fuori al carcere di Santa Maria Capua per protestare proprio contro le violenze di cui i reclusi erano rimasti vittime».
L’indagine sui pestaggi è partita dalle note del garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, del commissariato di Polizia di Santa Maria Capua Vetere e del magistrato di sorveglianza Marco Puglia, che per primo si recò in carcere dopo i fatti del 6 aprile. Ciambriello aveva ricevuto dai familiari dei detenuti pestati dei file audio inviati dagli stessi reclusi ai propri congiunti, relativi alle violenze subite: messaggi tipo «ci hanno ucciso di mazzate», ricordati anche ieri da Macrì. Si torna in aula il prossimo 15 marzo.
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