Il nuovo dg della Disney, Bob Iger, riprende il posto che era stato suo per più di 15 anni
Topolino vira a destra, così almeno sembrano indicare le dichiarazioni del nuovo Direttore generale della Disney, Bob Iger, che riprende il posto che era stato suo per più di 15 anni.
Un cambiamento improvviso che avviene in un momento critico per la Disney, impegnata, tra l’altro, in una querelle giudiziaria con lo Stato della Florida che si annuncia assai problematica per i prossimi mesi.
Interrogato sulle linee guida che intende perseguire, Iger non nasconde la necessità di dover trovare un accordo, principalmente perché l’impresa attraversa un momento di crisi, aggravata appunto dalla legge contro l’attivismo LGBT promulgata del governatore della Florida, De Santis, denominata «Don’t Say Gay» che si dimostra incompatibile alle ultime prese di posizione della Disney.
La legge, infatti, vieta di discutere in classe argomenti che concernono l’orientamento sessuale o l’identità di genere, e questo fino all’età dei 10 anni, Una decisione legislativa che mal si accorda appunto allo spirito adottato dalla Disney in questi ultimi anni.
Il vecchio direttore, Bob Chapek, aveva rilasciato sull’argomento dichiarazioni poco diplomatiche tanto da essere stato costretto a rassegnare le sue dimissioni soprattutto per non far perdere all’azienda i privilegi fiscali e regolamentari di cui godeva fino ad allora.
Bob Iger rifiuta oggi di alimentare la querelle con Orlando perché non ne vede convenienza per l’azienda e dichiara quindi voler calmare gli spiriti. Bob Iger sa bene di cosa parla dal momento che le finanze attualmente sono in caduta libera.
Il gruppo ha infatti registrato una caduta vertiginosa nella sua capitalizzazione in Borsa passando dai 300 miliardi di dollari dell’inizio del 2021 ai 160 dello scorso novembre. Una debacle finanziaria che, da sola, sconfessa la strategia manageriale di Chapek improntata al wokismo – la denuncia delle discriminazioni sessuali, razziali e sociali nella società americana – veicolato dall’azienda, dimostrando così, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che il cittadino padre di famiglia non ha nessuna intenzione di accondiscendere alle «cadute woke» di quelle aziende concorrenti che vogliono darsi una veste eccessivamente progressista e liberaleggiante.
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