Draghi vuole l’Ukraina nell’Unione Europea. E, naturalmente, nell’Ue la vuole tutto il Circo Barnum a stelle e strisce
Che Mario Draghi sia il più bravo di tutti, non c’è dubbio. Il problema è capire in che cosa sia il più bravo. Secondo me – è una modesta opinione eretica – è il più bravo a fungere da megafono delle posizioni degli Stati Uniti d’America in Europa. O, meglio, non in Europa, ma in quella squallida caricatura dell’Europa che risponde al nome di «Unione Europea».
È inutile che la von der Leyen faccia di tutto per atteggiarsi ad avanguardista della politica estera del Democratic Party di Washington, si arrabatti a profetizzare una sicura vittoria militare dell’Ukraina sulla Russia, si spertichi in arditi quanto irrealizzabili sogni di riscossa zelenskyana. Sulla piazza c’é di meglio e di più. C’é Supermario, il banchiere uscito dagli alambicchi della World Bank e rispedito in Italia giusto in tempo per andare a fare il direttore generale del ministero del Tesoro (e il presidente del Comitato per le Privatizzazioni) in un periodo decisivo per il futuro della nostra economia nazionale: l’ultimo scorcio della «prima repubblica» e gli esordi della cosiddetta «seconda».
Qui da noi era rimasto solo il tempo necessario per organizzare la dismissione del nostro patrimonio pubblico in nome degli alti ideali di liberismo e di globalizzazione, perché gli americani ce lo avevano rubato di nuovo, portandoselo a Wall Street come vicepresidente – addirittura – della Goldman Sachs, la più influente banca «d’affari» del pianeta. La stessa – per intenderci – che nei giorni scorsi ha lanciato l’allarme per la probabile vittoria della Destra alle prossime elezioni italiane.
Altro giro, altra corsa: nel 2005 sir Drake si faceva vedere nuovamente da queste parti. E noi, grati, prima lo nominavamo governatore della Banca d’Italia e poi lo candidavamo nientepopodimeno che a presidente della Banca Centrale Europea.
Accolto a braccia aperte (con qualche mugugno di Berlino, in verità), alla BCE Draghi si inventava un provvidenziale Quantitative Easing e faceva così la sua pessima figura. In pratica, creava denaro dal nulla per «stimolare la crescita» nell’Eurozona; cosa che irritava i tedeschi e – conseguentemente – faceva piacere agli americani.
Era certamente un aiuto per le economie dei paesi del sud dell’UE, ma era solo un brodino per l’ammalato. I soldi del QE, infatti, non andavano ai governi perché li utilizzassero per alleviare la situazione economica, ma alle banche perché comprassero i titoli del debito pubblico emessi dai governi. Così l’aiutino arriva alle banche e non agli Stati, cui era consentito soltanto di continuare ad indebitarsi.
Scaduto il mandato alla BCE a fine 2019, il nostro pensava a cos’altro fare da grande. Intanto si avvicinava la data dell’addio di Angela Merkel alla Cancelleria tedesca e, con essa, anche alla leadership di fatto dell’Unione Europea. Mancavano ancora uno o due anni, ma nei piani alti del potere mondiale forse ci si interrogava già su quale potesse essere il futuro dell’Unione. In quel di Washington, naturalmente, si auspicava che potesse saltar fuori un «uomo della provvidenza» in grado di mitigare la presa di Berlino sulla UE, riportandola nell’alveo di un più disciplinato allineamento alla politica americana.
Era così che, probabilmente, qualcuno pensava a Sir Drake, che al momento si trovava disoccupato. Ma occorreva trovargli un ruolo di governo in Italia, in modo che potesse avere titolo per interloquire con la Commissione Europea.
Coincidenza (?) fortunata (??): nel gennaio 2021 Renzi faceva cadere il governo italiano del tempo (Giuseppi II), e la strada per Supermario era improvvisamente spianata. Con squilli di trombe e rulli di tamburi, Mattarella lo incaricava di formare un governo di larghe intese che potesse spendere comme il faut i fondi del PNRR.
Draghi accettava e, nel presentare alle Camere il suo gabinetto, sottolineava con grande enfasi come questo fosse un governo non soltanto «europeista» ma anche «atlantista». Cioè – traduco dal politichese – fedele all’alleanza militare con gli Stati Uniti d’America. Quasi che gli parlasse il cuore, o che – più prosaicamente – qualcuno lo avesse avvertito che le provocazioni americane stavano per raggiungere il loro scopo, spingendo Putin ad invadere l’Ukraina. D’altro canto, dell’«abbaiare» della NATO ai confini della Russia si parlava già anche in Vaticano.
Il resto è storia recente: la guerra, l’allineamento totale di Roma alle posizioni americane, l’invio di armi all’Ukraina (e di che tipo di armi si tratti è stato secretato), l’adesione ad una politica sanzionista che è fortemente contraria ai nostri interessi economici. E, da ultimo, la gita fuori porta a Kyiev per forzare la mano a francesi e tedeschi, assai poco entusiasti della prospettiva di un ingresso dell’Ukraina nell’Unione Europea; ingresso – aggiungo – che, nonostante i salamelecchi protocollari, resta lontanissimo nel tempo e comunque assai problematico.
Il tutto con il noto contorno di dichiarazioni che, forse, vorrebbero essere spiritose. Come quella dei condizionatori, o come quella secondo cui a volere l’Ukraina nell’Unione Europea sia l’Italia. In realtà l’Italia non ne sa niente. È Draghi che vuole l’Ukraina nell’Unione Europea. E, naturalmente, nell’Unione Europea la vuole tutto il Circo Barnum a stelle e strisce: Obama, i coniugi Clinton, la Pelosi, quel tesoro (suo) di Georges Soros, e altri miliardari assortiti.
Supermario, intanto, imperversa a tutte le latitudini. Con lui quell’esperto diplomatico che risponde al nome di Giggino ‘o Guaglione, premio Nobel per la Coerenza 2022. I due giganteggiano per terre e per mari, dall’Algeria al Congo, dal Congo al Mozambico, dal Mozambico al Qatar, dal Qatar a Israele, alla ricerca affannosa di un gas «liquefatto» che potrà arrivarci solo fra qualche annetto, e che ci costerà il doppio o il triplo del vecchio gas allo stato gassoso, quello che ancóra (e per quanto tempo?) ci arriva comodamente – e a costi contenuti – dal gasdotto russo.
Che poi – tecnicamente – il «gas naturale liquefatto» (che noi dovremmo poi ricondurre allo stato gassoso) è solo quello di provenienza africana o mediorientale. Perché quello di provenienza americana, il cosiddetto shale, prima di essere «liquefatto», deve essere tirato fuori dalle rocce dove è annidato, attraverso un complicatissimo, costosissimo ed altamente inquinante processo di fracking (frantumazione idraulica), onde «spremere» il gas intrappolato in quelle pietre da milioni di anni ed a profondità abissali (tre o quattro chilometri).
Il costo di tutte le operazioni necessarie (estrazione + trasformazione + trasporto + rigassificazione) sarà stratosferico, così come stratosferiche saranno le bollette che noi tutti saremo chiamati a pagare. Il governo Draghi, infatti, si è dichiarato disponibile ad acquistare quantitativi enormi (credo, 15 miliardi di metri cubi) di gas americano, per la gioia della Casa Bianca e dei petrolieri dell’Oklahoma.
Sostituire il gas naturale russo con il gas shale americano è una manovra che certamente ci porterà a «ridurre la dipendenza dal gas della Russia» (chiodo fisso di Sir Drake), ma ci porterà anche ad uno svenamento finanziario di proporzioni colossali. Decisamente Draghi è «il migliore». E quanto «migliore» sia – statene certi – cominceremo a vederlo ben prima dell’arrivo del gas americano. Diciamo fra due o tre mesi.
Michele Rallo
già parlamentare di An, esperto di Geopolitica
autore di diversi saggi sul tema