La morte di Elena | Può davvero l’amore materno trasformarsi in odio per gelosia?

di Antonella Di Martino

Abbiamo chiesto alla criminologa Maria Olimpia Venditto di aiutarci a capire qualcosa in più di questa tragedia.

L’uccisione di un figlio da parte di una madre è considerato dalla coscienza collettiva l’atto maggiormente riprovevole da un punto di vista morale. Perché?

«Per la natura umana è difficile accettare l’idea che la soppressione di un individuo, già eticamente disturbante se attuata da estranei, possa avvenire ad opera di chi, oltre ad essere legato alla vittima da un vincolo di consanguineità, l’abbia, addirittura, generato. Per questo, quando, contrariamente ad ogni aspettativa sociale, tali fatti accadono, la pubblica opinione risponde quasi sempre etichettando aprioristicamente i loro autori come esseri deprivati dei minimi requisiti di sanità psichica, in modo da sortire inconsciamente un duplice risultato».

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«Il riconoscimento di una “diversità” mentale in chi mette in pratica simili azioni, infatti, permette non solo di prendere le distanze dal suo modo di agire, isolandolo ed allontanandolo da sé, ma anche di giungere rapidamente ad una possibile spiegazione di queste condotte, senza mettersi in discussione. All’origine dell’attivazione di questo peculiare modo di ragionare e categorizzare vi sarebbe, quindi, soprattutto l’esigenza, sia individuale che collettiva, di placare un disperato bisogno di essere tranquillizzati e deresponsabilizzati insieme».

Questo giudizio così duro nei confronti delle donne libericide è fondato?

«Nel diritto romano e germanico, alcune leggi, distinguendo nettamente i casi in cui l’uccisione dei figli fosse opera del padre, da quelli in cui la stessa fosse attribuibile alla madre, contemplavano la pena di morte solo in relazione a questa seconda ipotesi (Lex Cornelia de sicariis et veneficis, Lex Pompeia de parricidiis, Lex Visigotorum). Ciò perché si era convinti che l’amore materno verso la propria prole fosse innato e, quindi, istintivo, naturale, viscerale e irrinunciabile, contrariamente all’attaccamento paterno, decisamente più tiepido, perché acquisibile solo se e quando componenti psicologiche e socio-culturali lo favoriscano».

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«Questa credenza, però, per quanto tramandata da tempi immemorabili, non è stata ancora scientificamente dimostrata. Il nostro atteggiamento di chiusura, di fronte all’idea che una madre possa provare sentimenti ambivalenti nei confronti dei propri figli, sarebbe da ascrivere, pertanto, principalmente ai pregiudizi culturali sulla maternità e sul contegno che una madre deve avere verso i figli, trasmessici generazionalmente. Del resto, anche le leggende e i miti, che indubitabilmente affondano le radici nella realtà, lasciano intuire che un comportamento simile, per quanto esecrabile, può essere messo in atto anche da chi il figlio l’ha portato in grembo e partorito».

«Le storie di Medea e di Agave, da cui hanno attinto autori di tragedie del calibro di Euripide, sono note a tutti: la prima, tradita e abbandonata da Giasone, si vendicò uccidendo, non solo la rivale, ma anche i figli che aveva avuto da lui; la seconda, invece, in preda a furore dionisiaco, uccise il figlio Penteo, avendolo confuso, con un leone».

Come si spiega il fenomeno del figlicidio?

«La ricostruzione criminodinamica e criminogenetica di questo particolare comportamento omicidiario non può prescindere dall’analisi dei possibili fattori che possono influire sulla complessa rete di relazioni che lega la madre al figlio. Bisogna considerare, dunque, il punto di vista psicologico e psicoanalitico, quello sociologico e quello psichiatrico».

Ci spieghi innanzitutto il punto di vista psicologico e psicoanalitico cui fa riferimento.

«Alcuni affermano che la capacità delle madri di avere cura e protezione dei figli dipenda dal progesterone ovarico, un ormone di cui è privo l’uomo. In realtà, lo sviluppo di tale attitudine dipende anche da implicazioni di carattere psicologico e sociale che agiscono sulla bambina prima che diventi donna e che, nel corso dell’evoluzione della stessa, contribuiscono a configurare le sue immagini interne, in particolare quelle della madre, del padre e dei loro sostituti. Si pensi, per esempio, all’esperienza che la donna riceve come figlia, che poi può, tanto convertirsi in tendenza materna attiva, inducendola a riproporre nei confronti dei figli gli schemi sperimentati dai suoi stessi genitori con lei e con i suoi eventuali fratelli, tanto provocare, al contrario, risultati del tutto opposti».

«Quindi, sulla complessa ed articolata condizione psicologica individuale legata alla maternità può agire, con meccanismo circolare causa-effetto, anche il processo d’identificazione con i propri genitori. Logicamente, la prima figura rilevante è la madre con la totalità dei suoi comportamenti, i quali costituiscono la base del processo d’acquisizione della funzione materna che sarà espletata nella piena maturità della donna».

«Se quest’ultima si sarà identificata col fantasma della buona madre, la sua relazione col figlio sarà senz’altro positiva; se, viceversa, la donna porta ancora irrisolto dentro di sé il primordiale conflitto amore-odio, il sentimento di colpa che ne deriverà disturberà tutte le sue relazioni future. In effetti, la donna che non abbia risolto l’odio verso la propria madre, avrà paura di amare il proprio figlio e si limiterà a dominarlo o negarlo. La relazione con lui, pertanto, potrà anche risultare alterata in maniera più o meno grave, caratterizzandosi spesso come maltrattante, intendendo con questa espressione una vasta serie di situazioni che va dal maltrattamento psicologico alla grave trascuratezza e al maltrattamento fisico, fino ad evolversi talvolta in figlicidio, che rappresenta il gesto estremo della relazione maltrattante, nella quale le potenzialità distruttive insite nell’abnorme interazione madre-figlio vengono drammaticamente messe in atto».

Passiamo al punto di vista sociologico

«La psiche di un adulto risulta minacciata da una infinita serie di fattori esogeni derivanti dalle disarmonie e dalle contraddizioni del nostro modo di vivere, tendenti ad erodere l’equilibrio psichico di ciascuno di noi. Sulla dimensione psicologica della maternità, quindi, gioca un ruolo determinante, non solo l’ambiente psicologico familiare, ma anche l’ambiente sociale. Del resto, la relazione madre-figlio non è un rapporto a due, da cui sono esclusi tutti gli altri, e si consideri pure che, man mano che cresce, fino a diventare adulta, una donna vive i suoi molteplici ruoli, compreso quello di figlia e di madre, in un contesto abbastanza ampio in cui ciascuno ha una parte. Va da sé, quindi, che, intorno al primitivo inconscio della donna adulta che diventa madre, costituitosi nella lontana relazione con la propria madre e col proprio padre, si è andata costruendo una serie di nuovi rapporti e di scambi con l’ambiente col quale la donna è entrata in contatto».

«Tali relazioni, al pari delle prime esperienze infantili coi genitori, si riveleranno in seguito altrettanto strutturanti ai fini della sua maturità di donna e della sua capacità di assumere il ruolo di madre. Accanto a tali esperienze, vanno considerati, inoltre, anche il presente e le situazioni attuali nelle quali la donna vive, in primo luogo il suo modo di assolvere ai ruoli di moglie, di casalinga, di lavoratrice, di professionista ecc.».

«Tenendo conto di tutti i fattori innanzi menzionati, ben si comprende, dunque, l’elevato rischio di fallimento cui può andare incontro una donna incapace di superare i suoi conflitti interni, non in grado di adattarsi ed evolversi nel suo ruolo materno e di conciliare i suoi molteplici ruoli secondo le aspettative sociali. In questi casi, il figlio può rappresentare un facile ed immediato bersaglio contro il quale sfogare tutta la propria ostilità ed aggressività, i sensi di colpa e le frustrazioni accumulati nel mondo competitivo nel quale si trova a vivere».

Consideriamo, da ultimo, il punto di vista psichiatrico

«Statisticamente, le madri che uccidono i figli, affette da vizio di mente al momento del delitto, costituiscono la stragrande maggioranza. La patologia mentale di più frequente riscontro è la schizofrenia, con vissuti prevalentemente persecutori, altre condizioni morbose sono le immaturità o anomalie della personalità, le forme depressive, molto frequenti al giorno d’oggi, gli stati d’ansia, le nevrosi ossessive o isteriche e gli stati epilettici. Rientrano nel quadro psichiatrico, anche gli omicidi verificatisi nel corso delle cosiddette psicosi puerperali, termine, quest’ultimo, utilizzato per riferirsi a sindromi psichiatriche eterogenee, come quadri depressivi lievi e transitori, espressione di disturbi dell’adattamento, e manifestazioni depressive o maniacali di diversa gravità».

«A tal proposito, va evidenziato che non manca chi nega la reale incidenza della patologia psichica sul gesto omicidiario, ritenendo che, nella maggior parte dei casi, definire “malate di mente” le madri che uccidono i propri figli significa solo collocare nella categoria del morboso quelle condotte maggiormente disturbanti l’etica comune, e che, quindi, il ricorso a tale etichetta costituisca soltanto un comodo éscamotage per deresponsabilizzare la società. In effetti, la maggioranza fa fatica ancora oggi fa ad accettare la figura della madre cattiva o della madre omicida sana di mente. E la censura che opera in ciascuno di noi, e che esprime l’imperioso bisogno di essere rassicurati sulla solidità dell’istinto materno, sembra non risparmiare nessuno, neppure gli psichiatri».

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