Dopo quella data i futuri assetti politici potrebbero prendere una piega inaspettata
Sabato 24 settembre 2022. Segnate questa data sul calendario in rosso perché da questo momento in poi il corso della legislatura potrebbe cambiare, decisamente; e così anche i futuri assetti politici potrebbero prendere una piega per il momento imprevedibile.
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Per quale ragione? Perché dal 24 settembre i parlamentari avranno maturato la fatidica pensione. Saranno, cioè, trascorsi 4 anni 6 mesi e un giorno dall’inizio della legislatura, tappa fondamentale perché da questo momento in poi a deputati e senatori sarà ufficialmente riconosciuto il diritto a percepire la pensione.
Per carità nessuna concessione alla retorica populista, ma semplicemente un dato oggettivo. Rispetto al passato dal 2012 il vitalizio è stato sostituito con un trattamento pensionistico simile a quello degli altri lavoratori, con una regola ben precisa: per essere percepito è necessario che i parlamentari siano rimasti in carica 4 anni, 6 mesi e un giorno pena la perdita dei contributi versati, che in soldoni sono circa 50mila euro. E per l’appunto la data fatidica è il 24 settembre. Dopo di allora deputati, senatori potranno tirare un sospiro di sollievo e guardare al futuro con più serenità.
Lo farà senza dubbio il 68 per cento dei deputati e il 73 per cento dei senatori, che essendo alla prima legislatura erano finora espositi a questa spada di Damocle. Quindi dovranno pazientare ancora qualche mese, anche se tra pandemia e guerra in Ucraina non sembra esserci nulla che possa far presagire una fine anticipata e traumatica della legislatura.
La deadline per ogni discussione
Gli sguardi sono perciò rivolti a dopo l’estate e per l’appunto a quando superato il 24 settembre la giostra politica tornerà a muoversi a pieno ritmo. Non è un caso che proprio questa scadenza sia stata sempre considerata la deadline per ogni discussione e analisi politica. Peraltro, non è una novità che proprio tra fine autunno e inizio inverno in molti diano per certo che Mario Draghi prenda la decisione di chiudere la sua stagione politica e congedarsi da Palazzo Chigi.
I resoconti politici, e non solo, dipingono il premier sempre più stanco dell’avventura politica, di dover continuamente ricucire gli strappi all’interno della sua maggioranza e di essere infastidito dalle tensioni interne ai vari partiti che sostengono il suo governo. In effetti Draghi stesso sperava a questo punto di guardare il Parlamento da un Colle più alto, quello del Quirinale, ma tutti sanno come poi è andata a finire e certamente proprio la scadenza del 24 settembre e il rischio di un ritorno precipitoso alle urne è stato tra i principali motivi che ha impedito il suo approdo alla presidenza della Repubblica.
Per questa ragione sono in molti a pensare che quest’anno la legge di Bilancio sarà esaminata in anticipo rispetto agli ultimi anni e che già verso fine anno il Parlamento potrebbe essere sciolto per andare a votare agli inizi dell’anno, forse febbraio. In questo scenario sempre i beneinformati ritengono che le attenzioni di Mario Draghi potrebbero essere rivolte alla poltrona di segretario generale della Nato, che si libererà nel settembre del 2023, giusto in tempo per vedere come finirà la partita delle elezioni politiche e se nel caso ci sarà qualche ipotesi di governo tecnico e di altissimo profilo, casomai guidato proprio dall’ex numero uno della Bce.
La riforma della legge elettorale
Elezioni a parte però c’è prima un’altra questione da affrontare e che con il voto c’entra tantissimo e cioè la legge elettorale. Sono in tanti, infatti, a ritenere che la questione elettorale sia la vera carta coperta in attesa del 24 settembre, per poi essere calata sul tavolo verde della politica e giocata dai vari schieramenti nel migliore dei modi.
Al momento la riforma della legge elettorale è bloccata in Commissione Affari Costituzionali alla Camera, dove c’è un testo base, il Brescellum (proporzionale con soglia di sbarramento al 5 per cento), dal nome della presidente Brescia. Qualche settimana fa c’era stato il tentativo di rimettere in pista il provvedimento ma alla fine è prevalsa la scelta di attendere ancora. La guerra in Ucraina, i risvolti sul piano economico delle sanzioni ma soprattutto il rischio che il solo parlare di legge elettorale alzasse ulteriormente il clima all’interno della maggioranza ha spinto a mantenere ancora coperte le carte.
Peraltro, si sa che di legge elettorale se ne parla in procinto del voto e quindi il parlarne senza aver raggiunto il traguardo del 24 settembre poteva aprire un nuovo fronte di tensione per il governo con effetti del tutto imprevedibile. Ecco perché dopo il 24 settembre il capitolo legge elettorale potrebbe aprirsi, per poi chiudersi in tempo utile per il voto.
Ma aprirsi per chiudersi in che modo? E’ questa la domanda dalle cento pistole che tutti si fanno. A parole nessuno sembra pronto ad avallare un ritorno in stile Prima Repubblica, e cioè a un sistema proporzionale. Ufficialmente è contrario tutto il centrodestra con Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia schierati per il maggioritario. Ma sotto la superfice delle dichiarazioni si muovono correnti che non vedrebbero come una iattura il ritorno al proporzionale.
Il caso Sicilia insegna
A spingere in tal senso i rapporti sempre più tesi tra i vari partiti, specie tra FdI, da un lato, e Lega-FI, dall’altro. Il caso Sicilia docet, e se è difficile mettersi d’accordo per individuare il candidato alla Regione siciliana o al Comune di Palermo figurarsi stilare le liste elettorali per Camera e Senato. Senza contare che il proporzionale lascerebbe ognuno libero di fare la propria campagna elettorale e quindi di massimizzare i consensi in chiave elettorale. Un discorso che viene visto con interesse soprattutto dalle parti di via della Scrofa e nel senso che «da soli prendiamo più voti».
A sua volta anche dalle parti del centrosinistra la svolta proporzionalista, sottovoce, non dispiace. Se è vero che l’abbandono del maggioritario significherebbe la fine del ‘campo largo’ a cui sta lavorando dall’inizio della sua segreteria Enrico Letta, c’è dall’altro la sempre più crescente insofferenza per quell’alleato Cinquestelle che sulla guerra in Ucraina sta andando avanti a forza di troppi distinguo. Insomma, per il Pd far andare per la propria strada Conte a questo punto non sarebbe vissuto con molto rimorso.
Ma anche all’interno del M5S si inizia a vedere l’alleanza con il Pd con fastidio. E in questo senso Giuseppe Conte sembra aver tracciato sempre più la linea del Movimento, e cioè di un partito addirittura a sinistra del Pd che flirta con quell’elettorato a cui tra job act e filoatlantismo i dem non riescono più a rappresentare.
Ecco perché, messa al sicuro la pensione, il Parlamento potrebbe riprendersi la scena e giocare la sua partita sulla riforma della legge elettorale. Chiaramente sempre che nel frattempo il quadro internazionale non sia tragicamente crollato. Perché è chiaro che in quel caso ci sarebbe un’altra partita da giocare, con esiti ben più drammatici.
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