Ci vorranno 3 settimane per avere il testo della manovra ma intanto il sindaco Manfredi minaccia le dimissioni se non arriverà per Napoli 1 miliardo
Sedici giorni ma probabilmente si arriverà ad oltre 20. Quasi tre settimane, un record. È questo il ritardo che ha accumulato la legge di Bilancio firmata da Mario Draghi, annunciata giovedì scorso in una conferenza stampa dopo il via libera del Consiglio dei ministri e finora rimasta soltanto sulle agenzie.
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Diciamo non il massimo per un governo che dovrebbe essere dei ‘migliori’ e che invece giorno dopo giorno si sta uniformando ai precedenti, e in particolare a quello Conte bis che in fatto di provvedimenti annunciati e presentati con enorme ritardo era un campione.
Ma al di là dell’aspetto non tanto edificante di un Esecutivo che annuncia provvedimenti e non li presenta c’è senza dubbio un dato che subito balza agli occhi, e che cioè con questo ritardo accumulato l’esame della manovra sarà di merito soltanto in un ramo del Parlamento. Insomma, toccherà stavolta soltanto a Palazzo Madama mettere le mani sulla legge di Bilancio lasciando alla Camera dei deputati il semplice ruolo di notaio.
Un fenomeno, quello del cosiddetto monocameralismo di fatto, non nuovo ma che almeno con l’avvento del tanto osannato Mario Draghi speravamo di aver messo alle spalle. E invece riecco una pratica che ormai sembra diventata una consuetudine con l’effetto di aumentare quella distanza tra cittadini e Istituzioni che poi si riflette nell’alto astensionismo all’atto delle elezioni.
La manovra frutto di intese nella maggioranza
E come dare torto a questi cittadini. Prendiamo, ad esempio, proprio il caso ultimo di questa legge di Bilancio. Il grande ritardo non solo imporrà l’esame in un ramo del Parlamento ma costringerà anche a contingentare tempi di discussione e confronto. In pratica, tutto l’iter risulterà compresso costringendo i senatori a limitarsi nell’esercizio del loro ruolo. Da qui l’alta probabilità che la manovra diventi il frutto di intese non fatte alla luce del sole ma piuttosto di accordi, tutti in seno alla maggioranza, lontani dal Parlamento stesso. Lasciando, peraltro, all’opposizione soltanto le briciole.
Non uno spettacolo edificante per la democrazia. Ma c’è dell’altro. Infatti, se a questo monocameralismo aggiungiamo il ricorso sistematico al voto di fiducia, il ricorso alla decretazione d’urgenza e alla pratica di costruire i governi ‘in laboratorio’ c’è ancora qualcuno che si può stupire che i cittadini disertino le urne?
E per carità di Patria evitiamo di aggiungere alla lista appena stilata la proposta di modificare la carta costituzionale de facto, passando a una Repubblica semipresidenziale attraverso l’elezione a Quirinale di Mario Draghi e a Palazzo Chigi di una sorta di suo ‘luogotenente’. E tutto questo per consentire di continuare il processo di realizzazione del PNRR, in barba al principio che i governi li scelgono i cittadini.
Ma torniamo alla manovra. Come detto è da giovedì scorso che si sono perse le tracce, alle prese con la riscrittura o sarebbe meglio dire con la messa nero su bianco di quanto Draghi ha annunciato in conferenza stampa. E in particolare uno dei capitoli starebbe risultando di più complessa scrittura, quello del reddito di cittadinanza dove sarebbe difficile conciliare l’aumento dei controlli con la funzionalità della misura stessa.
La richiesta d’aiuto del sindaco Manfredi
Quest’anno però c’è anche un altro aspetto da rilevare della legge di Bilancio e cioè che il suo dipanarsi si intreccerà con il futuro della città di Napoli. È stato lo stesso neosindaco Gaetano Manfredi a porre con forza la questione nel corso di un’intervista su La Repubblica, annunciando le sue dimissione se dal governo non arriveranno i soldi del Patto per Napoli. Per la verità non è chiaro chi abbia firmato questo Patto, visto che Draghi non ne ha mai parlato.
Per chi si fosse perso qualche puntata Manfredi appena indicato dalle forze di centrosinistra come candidato sindaco rifiutò subito, spiegando con una lettera aperta che il dissesto finanziario del Comune di Napoli non avrebbe permesso di fare nulla. Solo con l’arrivo di un sostanzioso aiuto dello Stato allora sarebbe stato possibile salvare l’amministrazione e quindi mettere in campo quei progetti per risollevare Napoli. Fu allora che da Letta a Conte, passando anche per Di Maio, tutti si mossero in questo senso e nacque il Patto per Napoli dove si assicurava l’impegno dello Stato per la città. Solo allora Manfredi cambiò idea a decise di candidarsi.
Ora l’ex rettore della Federico II vuole passare all’incasso
Peccato però che di quel Patto Draghi non abbia mai fatto menzione, ed anche nell’incontro della scorsa settimana l’ex governatore della Bce non abbia dato alcuna rassicurazione. Anzi dalle indiscrezioni che trapelano al massimo la manovra stanzierebbe 200/300 milioni per due anni. Briciole rispetto a quello che chiede Manfredi, che dalle colonne di Repubblica si è spinto a chiedere 1 miliardi in 5 anni.
Grandi pretese, insomma, che chissà se potranno trovare accoglimento nella manovra. Da qui la minaccia delle dimissioni. Ecco perché mai come quest’anno alla legge di Bilancio è legato il destino e il futuro di Napoli, e sarà interessante seguire al Senato la battaglia per modificare la manovra in ossequio al ‘Patto per Napoli’. Ma comunque sia alla lunga lista di buone ragioni per disertare le urne speriamo di non dover aggiungere quella di eleggere un sindaco con oltre il 60 per cento dei voti e poi di assisterne alle sue dimissione. Senza dubbio anche questo non sarebbe un bello spettacolo.
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