Il premier Mario Draghi, nel pomeriggio di ieri durante le comunicazioni al Senato in vista del Consiglio europeo, ha provato a dissipare ogni dubbio: «l’Italia è uno Stato laico» e a discutere del Ddl Zan sarà il Parlamento. Fuga ogni dubbio dopo che il Vaticano aveva chiesto l’intervento del Governo perché il testo del disegno di legge, secondo la Santa Sede, violerebbe i principi stabiliti dal Concordato.
Il nostro, ha spiegato Draghi, «non è uno Stato confessionale, quindi il Parlamento è certamente libero di discutere e di legiferare». Difende l’operato delle due Camere e sulle paventate violazioni spiega che «il nostro ordinamento contiene tutte le garanzie per assicurare che le leggi rispettino sempre i principi costituzionali e gli impegni internazionali, tra cui il concordato con la Chiesa».
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«Quindi – sottolinea – vi sono i controlli di costituzionalità preventivi nelle competenti commissioni parlamentari: è di nuovo il Parlamento che, per primo, discute della costituzionalità, e poi ci sono i controlli successivi nella Corte Costituzionale».
«Voglio infine precisare una cosa, che si ritrova in una sentenza della Consulta del 1989. La laicità – afferma – non è indifferenza dello Stato rispetto al fenomeno religioso. La laicità è tutela del pluralismo e delle diversità culturali». Draghi però non ha nessuna intenzione di entrare nel merito della discussione: «il Governo la sta seguendo ma questo è il momento del Parlamento, non è il momento del Governo».
Consiglio europeo, in agenda anche la gestione dei migranti
Ma al Consiglio europeo si parlerà della gestione dei flussi migratori, in agenda su precisa richiesta dell’Italia. «Il Governo – spiega Draghi – vuole gestire l’immigrazione in modo equilibrato, efficace e umano. Ma questa gestione non può essere soltanto italiana. Deve essere davvero europea. Occorre un impegno comune che serva a contenere i flussi di immigrazione illegali; a organizzare l’immigrazione legale; e aiutare questi paesi a stabilizzarsi e a ritrovare la pace. E penso, ovviamente, in modo particolare alla Libia. Un migliore controllo della frontiera esterna dell’Unione può essere la base per un piano più ampio che comprenda anche il tema dei ricollocamenti».
Necessario superare però il Regolamento di Dublino. «Tra i Paesi dell’Unione – dice -, esiste un’ampia convergenza su quest’esigenza. Si tratta di una convenzione concepita in una diversa fase storica, adatta a gestire numeri contenuti. Al momento, però, una solidarietà obbligatoria verso i Paesi di primo arrivo attraverso la presa in carico dei salvati in mare rimane divisiva per i 27 Stati Membri. Serve un’alternativa di lungo periodo, per fare in modo che nessun Paese sia lasciato solo».
«Attualmente sta emergendo un terreno comune tra gli Stati europei su diversi aspetti fondamentali. Tra i 27 Stati Membri ci sono punti di convergenza innanzitutto sul riconoscimento delle rotte migratorie come parte integrante dell’azione esterna dell’Unione europea. Intendiamo intensificare – in tempi rapidi – partenariati e forme di collaborazione con i Paesi di origine e di transito, in particolare con i Paesi africani. Lo scopo è quello di evitare perdite di vite umane ma anche di contrastare le partenze illegali, nonché di ridurre la pressione sui confini europei».
C’è il bisogno, inoltre, di «affrontare un aspetto che probabilmente non è stato affrontato con determinazione finora, che è quello dell’integrazione. Una volta che si hanno dei flussi legali, bisogna aiutarli a essere integrati. Questo è molto importante: se non vengono integrati, noi facciamo prima di tutto un danno a noi stessi, perché creiamo uno/una connazionale che sono potenzialmente nemici della nazione, nemici del Paese dove devono vivere – per forza o per ragione – ma senza poter contare su un’introduzione nella società che noi, per nascita, per cultura o per storia abbiamo automaticamente e la prendiamo così per data, ma loro no».