Dal sindacalismo rivoluzionario, una nuova idea di lavoro e nazione

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Gennaro Malgieri
Gennaro Malgieri

Il sindacalismo rivoluzionario può essere considerato il movimento politico-culturale più fecondo del secolo scorso, ma anche il più trascurato sotto il profilo degli studi e delle interpretazioni che di esso sono state date.

Se si eccettua, infatti, una ristretta cerchia di studiosi che ad esso si sono dedicati, non ha avuto grande fortuna neppure presso il pubblico cosiddetto ‘colto’. Singolare “distrazione” se si considera che da esso ebbe origine in parte il fascismo, in parte l’anarco-sindacalismo e perfino una cospicua componente del Partito comunista la si può imputare al suo marxismo per quanto rivisto e corretto.

L’oggettiva vicinanza, divenuta poi sostanziale convergenza, con il nazionalismo di Enrico Corradini rese il sindacalismo rivoluzionario una specie di ircocervo, tanto che alcuni dei suoi esponenti passarono tra le ‘camicie azzurre’ senza rinnegare le origini rivoluzionarie e “sovversive”.

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L’influenza del sindacalismo – che ebbe in Georges Sorel il massimo teorico europeo e in Italia con Filippo Corridoni il suo eroe (cadde ventottenne nel 1915 in battaglia sul Carso, dopo essere stato un attraente agitatore ed un organizzatore brillante) – è innegabile riscontrarla nel dannunzianesimo fiumano: la Carta del Carnaro, prima Costituzione del Novecento, fu infatti redatta da Alceste De Ambris, capofila di quella “banda” di eretici del socialismo.

Da qualsivoglia prospettiva lo si guardi, il sindacalismo rivoluzionario espresse crisi ed inquietudini del suo tempo in cui accese la speranza rivoluzionaria diffondendo il “mito” sorelliano della violenza e dell’azione diretta. Lo scopo era quello di unire il popolo alla nazione, concretando in tal modo una comunità di produttori liberi dalle logiche del profitto e dalle dinamiche derivanti dal marxismo oggettivamente funzionali alle “illusioni del progresso”, appannaggio culturale di una borghesia fattasi Stato e perciò incline a preservare i suoi interessi contro quelli del proletariato.

Il sindacalismo rivoluzionario si è espresso in modo tutt’altro che unitario. Infatti, la frammentazione del movimento, dovuta a sensibilità personali e agli orientamenti teorici diversissimi dei suoi maggiori esponenti, ne fecero un movimento assai composito votato più alla sensibilizzazione delle masse verso i tempi nuovi che caratterizzavano la questione operaia che a fornire un corpus dottrinario coerente agli inquieti socialisti insofferenti verso il riformismo, ma neppure completamente appagati dal massimalismo che spesso non disdegnava le compromissioni con il parlamentarismo ed il “carrierismo”.

Contrariamente a quanto si è generalmente portati a credere, il sindacalismo rivoluzionario ha le sue origini nell’Italia meridionale, ed in particolare in quella fucina di ingegni che fu Napoli tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, in particolare nella sua università dove si formarono molti dei migliori teorici che avrebbero sottoposto ad una critica serrata il marxismo, idealmente iscrivendosi alla scuola del revisionismo capeggiata da Eduard Bernstein e Hubert Lagardelle. Un ruolo particolarmente significativo lo ebbe il tedesco Ferdinand Lassalle, che abbandonò Marx scoprendosi nazionalista e estimatore del cancelliere Otto von Bismarck.

L’istanza del primato nazionale, secondo Marx, era contraria alla causa del proletariato. Invece Lassalle inizialmente riuscì anche a raggiungere un accordo con il cancelliere cercando per l’appunto di ottenere in Prussia il suffragio universale, che lo stesso Bismarck vedeva come utile strumento per indebolire la classe borghese liberale, nemica sia degli junker conservatori, sia dei socialdemocratici. Tuttavia l’accordo non si concretizzò anche per la scomparsa precoce di Lassalle, morto a trentanove anni in duello.

Dai primi successi del 1904 allo spegnersi sul finire del decennio, dalle evoluzioni radicali con antimilitaristi che finiscono per diventare interventisti, alla rifondazione di un’unione sindacale informata ai principi del volontarismo e del solidarismo con l’ambizione di contendere alla vecchia sinistra il monopolio rivoluzionario, le figure più significative del movimento diedero vita ad una una nuova concezione della politica che se non riuscì a trovare sbocchi decisivi pose comunque le basi per “nuove sintesi” destinate ad influire sulla costruzione della “nuova Italia”.

In particolare la semina di alcuni sindacalisti ritratti e, nelle linee essenziali, riproposti attraverso alcuni loro scritti in questo saggio antologico di Renato Melis, la cui prima edizione risale al 1964, come Arturo Labriola, Enrico Leone, Angelo Oliviero Olivetti, Sergio Panunzio, Agostino Lanzillo, vale a dire i massimi teorici del movimento, si palesa fruttuosa per le conseguenze politico-culturali che avranno nel dispiegarsi delle correnti che improntarono la “nascita” del Novecento ed offrirono le basi teoriche tanto al nascente comunismo italiano quanto al fascismo.

Di altri autori, altrettanto importanti, come Ottavio Dinale, Filippo Corridoni, Paolo Mantica, Alceste De Ambris, Paolo Orano, Walter Mocchi e molti altri, compresi l’anarco-sindacalista Armando Borghi ed il futuro comunista Giuseppe Di Vittorio, nel volume di Melis non v’è traccia e l’antologia, pur ricca, risulta monca per l’omissione di alcuni dei teorici citati che furono anche uomini d’azione la cui importanza ed il ruolo che ebbero in occasioni non marginali nel dispiegarsi della questione operaia negli anni Dieci-Quindici non è sottovalutabile.

Anzi, dalla folla di teorici, agitatori e propagandisti emersero idee-guida nella formazione del primo fascismo e nel più complessivo superamento del classismo nell’idea di nazione. Fino a riprodursi in sindacalismo nazionale, una fase nuova nella quale non è difficile scorgere l’ombra del grande ispiratore di una rivoluzione che aveva bisogno di tempi propizi per potersi compiere: Georges Sorel.

Dobbiamo a Benedetto Croce l’introduzione in Italia del pensiero e dell’opera di Georges Sorel (1847-1922). Per quanto distante sul piano teorico e della prassi politica dall’ideologo francese, il filosofo italiano ne colse la “vicinanza” sia per quanto concerneva la sua critica al marxismo che per la dirittura morale esemplificata in una vita concentrata nello studio e nella comprensione della modernità – diremmo oggi – senza lasciarsi trascinare dalle mode e dalle utopie in voga all’epoca.

Sicché l’opera maggiore di Sorel, le Réflexions sur la violence (1906), grazie a Croce potè apparire in Italia ed influenzare decisamente gli insofferenti del marxismo scolastico, a cominciare dai sindacalisti rivoluzionari dei quali divenne il “mito” assoluto, mentre anche Lenin e Mussolini si abbeveravano alla sua dottrina. (…)

Si è davanti ad una interpretazione ideologica della nascita del sindacalismo italiano, rivoluzionario per definizione, che indiscutibilmente subì l’influenza decisiva di Sorel, si nutrì di correnti ed elementi culturali stranieri, da Bernstein a Lagardelle a Lassalle, si ispirò alla filosofia di Bergson e soprattutto di Nietzsche, assunse il pragmatismo ed il revisionismo tedesco a socialismo come esempi su cui fondare una prassi rivoluzionaria, fece suo il solidarismo soprattutto francese, interiorizzò i motivi aristocratici ed individualistici che dalla cultura europea della fine di secolo si proiettavano sul nuovo e, naturalmente, non buttò a mare Marx ed il marxismo stesso, ma lo sottopose ad una specifica rivisitazione.

Curcio, molto opportunamente aggiunse: «A guardar meglio nel fondo delle idee sindacaliste, di quelle originarie ed anche di quelle del periodo successivo, non sarà difficile trovarvi i filoni, le influenze (più o meno avvertite dagli stessi artefici dell’Ottocento: Pisacane, Cattaneo, Mazzini, ad esempio. Angelo Oliviero Olivetti e Paolo Orano avevano studiato con passione il Saggio sulla rivoluzione del martire di Sapri; Orano aveva trovato nel Pecchio il precursore italiano di Marx (Giuseppe Pecchio fu un economista che nel 1820 partecipò alla congiura dei Federati e per questo fu costretto all’esilio. In Inghilterra si conquistò la fama di economista, moderno ed originale).

Tentò una sistemazione organica degli scritti degli economisti italiani, in Storia dell’economia in Italia (1829), libro che ebbe una traduzione in francese e fu propedeutico a successivi sviluppi dell’economia politica ); Olivetti ha rivendicato, sia pure molti anni dopo, nel 1923, alla teoria psicologica delle menti associate del Cattaneo il valore di idea madre del sindacalismo. Il principio dell’associazione mazziniano era ancora vivo ed il mazzinianesimo (che il Sorel travisò alquanto, in un cenno che ne fece) aveva ai primi del secolo un focolare tuttora caldo specie a Napoli, ove il Bovio ed altri se n’erano fatti custodi; ed a Napoli avevano studiato il Labriola, il Leone, il Panunzio ed altri, che poi passarono al sindacalismo».

E Napoli era ancora un centro di studi vichiani, sia pure coltivati con mentalità talvolta sociologica. C’è dunque da chiedersi se i nostri sindacalisti conobbero Vico attraverso Sorel. Per lo meno essi avevano respirato, come sosteneva Curcio, «l’aria di G.B. Vico, o, fuor di metafora, avevano frequentato vichiani ed anche hegeliani, ch’ebbero a Napoli un circolo, come soleva dirsi, assai diffuso. Si potrebbero fare anche i nomi di Bruno e di Campanella, che in quegli anni ebbero i loro storici più documentati (Paolo Orano è nipote di Domenico Berti, lo storico di Bruno)».

Ma in tale contesto non si può dimenticare dimenticare Antonio Labriola. Il suo saggio sul materialismo storico è del 1896, tradotto l’anno dopo in francese, con una introduzione di Sorel. Il valore dei saggi sul marxismo e sul socialismo, di Antonio Labriola, è indiscutibile come questo originale filosofo partenopeo trasse elementi per una interpretazione storico-filosofica del socialismo, come nessun revisionista aveva fatto fino ad allora.

Benedetto Croce, non senza ragione, ha potuto dire che il promotore della crisi del socialismo è stato proprio lui, Antonio Labriola, che restò socialista a suo modo, sentendo forte l’idea di nazione e rivendicando l’esigenza dell’impresa di Tripoli dieci anni prima dei nazionalisti. Sempre Curcio, «Labriola si staccò idealmente da Sorel, che giudicò un generico socialista; intanto Benedetto Croce studiava e metteva in evidenza taluni aspetti caduchi delle teorie economiche marxiste, ritenendone l’infondatezza scientifica e Giovanni Gentile approfondiva la filosofia (o quel che pareva tale) di Carlo Marx.

Strano a dirsi: i maggiori esponenti dell’idealismo italiano cominciarono la loro attività di filosofi studiando Carlo Marx (e si potrebbe ripetere per essi quel che ora sappiamo di Platone e cioè che la politica porta alla filosofia e non viceversa). Alla scuola di Antonio Labriola si formarono l’Orano ed altri». Ma va pure riconosciuto che i “germi” del sindacalismo affiorarono nel Mezzogiorno e si propagarono in tutt’Italia, trovando nelle regioni del Nord, oltre che a Roma, il terreno fertile per espandere la sua influenza. Aveva dunque ragione Gramsci quando sosteneva, nelle Note sulla questione meridionale che «il nucleo dirigente del sindacalismo è costituito da meridionali quasi esclusivamente (Labriola, Leone, Longobardi, Orano)».

Dopo aver combattuto lo Stato borghese, numerosi sindacalisti si affaccendarono nel contribuire alla costruzione di un “Nuovo Stato”, lo Stato dei produttori e dei proletari, interclassista e patriottico, autoritario ed espansionista. Erano le prime incursioni teoriche post-belliche in un terreno inesplorato, da dissodare. Labriola, Leone, Olivetti, Panunzio, Lanzillo, (senza dimenticare Michels) “antologizzati da Melis”, furono gli antesignani del nuovo ordine politico, cui andrebbero affiancati, provenienti da altre sponde, Enrico Corradini, Alfredo Rocco, Luigi Federzoni, Roberto Forges Davanzati. Sindacalisti e nazionalisti trovarono la sintesi su cui edificare lo Stato-comunità del futuro. Due “isole” che s’incontrarono nella formazione della patria comune.

Gennaro Malgieri

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