La nuova svolta del giornalismo napoletano fu scandita dall’atto sovrano del 28 gennaio 1848 e dalla Costituzione del 10 febbraio. Da quel momento in avanti, infatti, alle riviste e ai fogli letterari e culturali, già sul mercato, si aggiunsero quelli di contenuto politico. Tant’è che il numero delle testate edite in quel periodo toccò la “stratosferica” cifra di 130.
Il che consentì la nascita ed il dipanarsi di un dibattito politico che diversamente, stante la pochezza, per non dire l’assoluta assenza, di strutture di partecipazione e la difficoltà della pratica parlamentare, sarebbe stato, se non del tutto impossibile, decisamente complicato e complesso.
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È sufficiente sfogliare le pagine di quei giornali e approfondirne un po’ i contenuti per accorgersi della nettissima divaricazione esistente fra i gruppi liberal-costituzionali: divaricazione che rese ancora più evidente e determinante l’originaria inconsistenza numerica di questi schieramenti, dovuta del resto alla limitatezza dei loro aderenti.
L’alta borghesia per il Parlamento bicamerale, la piccola e media “no” alla Camera alta. “Il Tempo” e la “questione siciliana”
Da un lato c’erano i cosiddetti “costituzionali” di destra, “figli” della borghesia alta, che puntavano ad una trasformazione istituzionale lenta e priva di fiammate, e che guardavano con assoluta disattenzione alle questioni di livello nazionale, soddisfatti com’erano della Costituzione del 10 febbraio e del Parlamento bicamerale da essa previsto (anche se la Carta continuava ad attribuire notevoli poteri al re).
Dall’altro lato c’erano i più avanzati, ma non troppo omogenei tra di loro dal momento che erano derivazione della piccola e media borghesia della città e della provincia: costoro ambivano ad allargare la loro azione sul piano nazionale, inoltre non erano d’accordo sulla istituzione della Camera alta e chiedevano che il suffragio per l’elezione dei parlamentari fosse più ampio, in più proponevano che i parlamentari, una volta eletti, potessero anche mettere mano alla modificazione dello Statuto.
I primi poterono fare affidamento per la promozione delle loro idee sul quotidiano “Il Tempo” fin dall’uscita del primo numero (21 febbraio) e sino ad aprile. Diretto da un comitato di direzione composto da Carlo Troya, Saverio Baldacchini, Achille Rossi, Camillo Caracciolo e Ruggero Bonghi, il giornale, graficamente non troppo snello, si presentò lanciando un appello generale a collaborare per la difesa e il perfezionamento dello Statuto in quegli articoli in cui, come scriveva il giornale, «ha additato o dischiuso appena la via a percorrere»: inoltre il foglio avanzava la proposta di costituzione di una lega e di un esercito nazionale per la conquista della nazionalità e dell’indipendenza.
Sulla questione della Sicilia, che correva a grandi passi verso il distacco dal regno, assunse una posizione tutto sommato abbastanza ambigua: da un lato infatti accusava il ministero Serracapriola per i ritardi nella convocazione del Parlamento isolano, dall’altro però criticava duramente le «esorbitanti pretese dei siciliani».
In materia di politica interna, al contrario, “Il Tempo” condannò, in ossequio al «giusto mezzo», «repubblicani e retrogradi», considerati forze politiche estreme e radicali: li accusò, infatti, di «non volere che la libertà costituzionale metta radici in questa misera terra», e ancor di più si scagliò contro le «utopie» dei «radicali» napoletani che erano fautori del suffragio universale,dell’abolizione della Camera dei pari e della trasformazione del Parlamento in assemblea costituente.
Il giornale aderì alla linea della reazione governativa quando, dopo la costituzione del Governo Troya, fu abbandonato dai fondatori che lo lasciarono al proprietario, il banchiere transalpino Thomas d’Agiout.
Il ribaltone della “Nazione” da Serracapriola e Troya
Sulla stessa posizione di difesa e miglioramento degli apparati istituzionali era attestata la “Nazione”, nata come bisettimanale, ma diventata trisettimanale dal 3 maggio: la dirigeva F.P. Zingaropoli, il cui programma, presentato nel numero d’esordio del 24 febbraio, annunciava di puntare a «conservare migliorando» le istituzioni in ossequio all’ordine e alla sicurezza pubblica.
Inoltre sottolineava che «l’immegliamento non sarà per noi che un oggetto secondario e subordinato alla conservazione» e faceva infine notare «che se nel 1820 ci fossimo rassegnati ad una Costituzione meno democratica di quella pubblicata in Cadice dalle Corti spagnuole, non avremmo patito la guerra, la disfatta, l’occupazione straniera, le più atroci persecuzioni, il più brutale dispotismo».
All’inizio la “Nazione” sostenne Serracapriola, ma poi, convintasi che «la sua lentezza era irresoluzione», fece il “ribaltone” e appoggiò Troya, diventando sostenitore della guerra nazionale e dell’esigenza di arrivare ad una “lega nazionale”: il giornale, però, aggiungeva di non voler abbandonare la propria linea tanto conservatrice quanto progressista, nè di conseguenza intendeva ritirare il suo «no» al ricorso alla piazza ed all’abolizione della Camera alta e nemmeno il «no» ad una «marcia troppo accelerata» verso le riforme.
“Omnibus” e Luigi Blanc contro il separatismo siciliano
Non troppo marcata, poi, si rivelò l’adesione alle istituzioni di “Omnibus” che, chiamando Luigi Blanc a intervenire sull’argomento, si oppose al separatismo siciliano, stoppando gli eccessivi entusiasmi per la guerra in Lombardia, e sostenne che «si servono con più perseveranza le cause da quei le hanno spogliate alle illusioni che da altri che su quelle contano».
Da parte sua il “Lucifero” faceva notare la «tristissima esperienza della instabilità dei politici miglioramenti», opponendosi alla «strana ed assurda pretesa» di chi propendeva per un programma che puntasse a rovesciare «dalle fondamenta una Costituzione sovranamente proclamata, giurata dal re, ricevuta con tripudio e riconosciuta dalle potenze estere».
I liberali più inclini alle istanze progressiste, meno conservatori e meno animati da spirito municipalistico, promossero le proprie istanze attraverso le colonne del “Riscatto italiano”, trisettimanale diretto da Pasquale Stanislao Mancini, che ebbe in Achille de Lauziéres un continuo e rispettato editorialista e in Cesare Malpica e Antonio Scialoia i suoi principali e più sentiti collaboratori.
Esso si schierò, praticamente, sulle stesse posizioni di difesa «della italica nazionalità» del “Risorgimento” e della “Lega Italiana”. Ma l’anelito nazionalista non gli impedì di guardare con attenzione, forza e determinazione, la quotidianità meridionale e di farsi carico, nella speranza ovvia di contribuire a risolverle, delle problematiche che ne rendevano difficoltoso il procedere: sicché, via via e a più riprese, denunciò il continuò peggiorare della situazione politica e amministrativa, l’inefficienza e l’inefficacia dei governi, infine il clientelismo dilagato sin dall’immediato post-Costituzione.
Tant’è che, come sostenne il 14 aprile De Lauziéres, «non è più il Lazzaro del ’99 o del ’20 che deruba le case dei privati; è il parlatore del ’48 che invade i ministeri e si appropria dei pubblici uffici».
Ma sul tappeto c’erano anche altre questioni sulle quali il “Riscatto” ritenne d’impegnarsi, ritenendole determinanti per la difesa e il consolidamento delle istituzioni costituzionali e rappresentative: ad esempio l’eccesso di centralizzazione a Napoli delle principali funzioni statali e il consequenziale allargamento delle distanze fra la capitale del Regno e le sue province, distacco che diventava sempre maggiore a mano a mano che le distanze reali fra Napoli e le altre città del Regno si allungavano e che aumentava anche per via della insoddisfazione della gente che non aveva ricevuto alcun vantaggio dalle trasformazioni e dai mutamenti politici.
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