È morto l’altro ieri sera Raffaele Cutolo, il più importante boss della camorra di tutti i tempi, ancora detenuto in regime di 41bis. Fondatore e capo della NCO (Nuova Camorra Organizzata), Cutolo strutturò la sua organizzazione secondo un sistema piramidale e paramilitare, basato sul culto di una sola personalità: la sua.
Il suo progetto criminale si ispirava ad un’ideologia di stampo ribellista e poggiava le sue basi su un vero e proprio esercito di giovani – la cosiddetta manovalanza cutoliana – reclutati tra le fila della classe proletaria.
L’affiliazione alla NCO avveniva tramite un rito di iniziazione ripreso dai cerimoniali massonici e prevedeva un giuramento di fedeltà e la più totale devozione al capo.
La graduale crescita della NCO spinse Cutolo ad allargare sempre di più le proprie mire espansionistiche, il che lo condusse inevitabilmente ad intraprendere una sanguinosissima guerra contro la Nuova Famiglia, guerra che contò oltre 850 vittime solo negli anni dal 1981 al 1983.
Da Cosa Nostra alla Banda della Magliana, dalle Brigate Rosse alla DC e ai servizi segreti italiani: sono poche le cose che le organizzazioni, criminali o non, più rilevanti del paese hanno fatto senza includere ò professore o chi per esso nei propri affari.
Nell’ultimo anno, Cutolo era stato ricoverato più volte in ospedale a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute, spingendo il suo avvocato a presentare istanza di differimento della pena, richiedeno i domiciliari al fine di offrirgli cure più adeguate, istanza respinta dal tribunale di sorveglianza di Bologna che ha ritenuto il boss ancora troppo incisivo nelle vicende dei gruppi criminali.
Come sempre accade in Italia, l’opinione pubblica si è allora spaccata a metà: da un lato chi riteneva che si potesse ormai considerare scontata la pena di un uomo vecchio e malato, che in un’altra epoca aveva mietuto migliaia di morti, talvolta innocenti, dall’altra chi non consente ad un carnefice di vestirsi da vittima, chi muore dentro ogni volta che si pensa al bene dell’assassino sputando sul dolore di chi ha perso un figlio, un marito, una madre per la sete di sangue di quell’uomo.
E sono morta dentro io stessa oggi, tante volte, leggendo i commenti sui social.
“R.i.p, prufessò”
“Cutolo uomo d’onore”
“Con lui se ne va l’ultimo uomo di valore”
Certo, uomo d’onore e di valori lo considerano, perché non si è mai pentito, non ha mai collaborato con la giustizia, non ha mai fatto i nomi dei suoi alleati, dei suoi affiliati, della manovalanza che continuava a lavorare per lui, esplodendo gli esercizi di chi non voleva pagare il pizzo, dando fuoco ai figli di un rivale per vendetta trasversale, sparando per sbaglio una ragazzina di 14 anni che si trovava a passeggiare per i vicoli di Napoli.
No. Questo per me non è un uomo d’onore. Questo per me non è un uomo.
Vi spiego io cos’è l’onore.
Leopoldo Gassani, per tutti Dino.
Noto avvocato penalista, consigliere regionale della Campania.
Verso la fine degli anni ’70 la NCO aveva alzato il tiro: avvocati, forze dell’ordine, giornalisti, uomini di Chiesa, una vera e propria mattanza, omicidi plateali che dimostravano che nella maggior parte dei casi non si trattava di regolamenti di conti tra clan rivali, ma di un programma di eliminazione di chiunque potesse risultare scomodo ai progetti criminali previsti sul territorio controllato.
Nel ’78 Dino Gassani aveva assunto la difesa di Biagio Garzione, telefonista dell’anonima sequestri. Nonostante all’epoca non fosse stata ancora varata la legge a tutela dei collaboratori di giustizia, Gassani convinse il suo assistito a fare i nomi dell’anonima sequestri, tra cui quello di Raffaele Catapano, figura di spicco della NCO e uomo i fiducia di Raffaele Cutolo, noto per la sua spietatezza.
Più volte Gassani fu intimato di abbandonare la difesa di Garzione, e tutte le volte lui andò dritto per la sua strada: grazie a quelle dichiarazioni, gran parte della NCO fu messa in ginocchio.
Nel 1979 durante il processo all’anonima sequestri Catapano urlò davanti a tutti: “Garzione è l’attore e Gassani è il regista”. Questa frase suonò come una vera e propria condanna a morte nei confronti di Dino Gassani.
Ne seguirono minacce e avvertimenti di ogni tipo, provenienti da detenuti di ogni carcere. Mentre da quel processo numerosi suoi colleghi si defilarono, Gassani non fece mai un passo indietro e tenne fede al suo mandato.
Era il 27 marzo del 1981 quando due presunti clienti andarono a chiedere consulenza a Dino Gassani, nel suo studio di Salerno. Erano in realtà due esponenti della NCO di Cutolo che per l’ultima volta gli intimarono di ritirare le dichiarazioni del suo assistito.
Pochi istanti prima di ribadire il suo ultimo e fortissimo ‘No’, Dino Gassani appuntò su un pezzetto di carta questa frase: «Non posso perdere ogni dignità!».
Fu freddato, il suo sangue macchiò il tricolore alle sue spalle. Il professore sconterà la propria condanna tra le fiamme dell’inferno, intanto noi proviamo a conservare la nostra dignità.