Draghi ha sciolto la riserva, presentato la squadra e giurato. Mercoledì e giovedì, la formalità della fiducia a Senato e Camera. Riuscirà a salvare l’Italia? Ovviamente me lo auguro, ma visti i nomi, tanti politici ripescati (15) e pochi tecnici (8), i dubbi sono tanti e rischia il Sud.
E’ vero, 5 ministri sono meridionali, ma durante la fase di consultazione nessuno ha mai parlato di Mezzogiorno. Una grossa coalizione purtroppo, all’altezza dello spettacolo poco edificante di un premier incaricato nei panni dell’omino del circo che grida «venghino siori venghino che più gente entra più animali si vedono».
Dal Pd, al M5S, passando per Iv, Leu, Fi e Lega tutti hanno pronunciato il fatidico «sì» e ricevuto la ricompensa. Sola eccezione FdI, la cui leader Georgia Meloni, lo considera solo «un governo di compromesso» e ribadisce il «no» alla fiducia. Una grande ammucchiata, quindi, che rischia di sfociare subito in rissa da lookdown giovanile.
Ma, l’aspetto più grottesco di questa vicenda è lo spettacolo di un SuperMario ed un Paese sospesi in attesa del via libero dei grillini di cui 44.177 (36,9%) hanno detto «si», 30.360 (25,3%) «no» e 45.507 (37,64%), hanno preferito astenersi e non si contano. Quindi, hanno vinto i «si» perché rappresentano il 59,3% dei votanti (74.357), mentre i «no» si sono fermati al 40,7 ed hanno perso, anche se sommati agli astenuti rappresentano il 62,9% degli iscritti e aventi diritto al voto (119.544).
Del resto, è ciò che succede in Italia da qualche decennio: grazie a chi si astiene – per protesta contro il malgoverno – vince e governa chi perde. Come diceva Einstein «Non tutto ciò che può essere contato, conta e non tutto ciò che conta, può essere contato».
Sarà soddisfatto Mattarella che è riuscito a evitare il voto anticipato, conservando alla sinistra la possibilità di essere ancora lei, a gennaio, a scegliere il prossimo Capo dello Stato (Draghi?) e saranno contenti i parlamentari che hanno sventato il rischio di doversene tornare a casa e al «lavoro usato». Chi lo aveva, naturalmente.
Non so dire, però, quanto possano esserne soddisfatti gli italiani che – al di là della fiducia o meno nei confronti di Draghi, si ritrovano di fronte quelle stesse forze politiche e molti di quegli stessi ministri che – per inefficienza, indecisioni, incapacità, incompetenze, dissidi, dpcm, approvazioni salvo intese e bonus a pioggia, per altro, mai arrivati a destinazione – li hanno ridotti nelle condizioni attuali.
Il matrimonio di convenienza giallorotto è diventato addirittura un famiglia allargata, pescando nel centrodestra due forze politiche: FI e Lega, evidentemente, in crisi di astinenza da potere. Solo che se i “maggiorenti” d’epoca non hanno avuto troppo problemi ad ospitare la prima, hanno mostrato diverse remore ad accettare la seconda e nel farlo si sono turate il naso. E questo nonostante che – nella speranza di farsi accettare – Salvini avesse rinunciato alla “Flat Tax”, si fosse piegato alle regole europee sull’immigrazione e votato «si» al Recovery.
Senza dire, poi, che quella di Pd, M5s e Leu è una “puzza sotto il naso”, del tutto particolare, anzi, incomprensibile. Sbraitano perché la Lega ha scelto di entrare in maggioranza, ma anche contro FdI perché ha deciso di restarne fuori. Forse, hanno bisogno di un buon psichiatra.
E c’è da chiedersi se davvero ne sia soddistatto Draghi, chiamato a rimettere in sesto il Paese. E che per farlo dovrà affrontare i danni ereditati dai Conte 1 e 2: il Pil 2020 peggiore d’Europa (-8,8%), non meglio quelli 2021 (+3,4) e 2022 (+3,5); il rischio fallimento delle imprese in crescita del 34% (dal 4,5% del 2019 al 6 di fine 2021), una produzione industriale crollata dell’11,4%, 115mila imprese e circa 300mila addetti, in bilico.
La pandemia ancora incombente, le riforme da fare: sanità (possibile con (senza) Speranza, riconfermato ministro alla salute?), lavoro, scuola, ambiente, giustizia, fisco, burocrazia e infrastrutture. Il tutto, con i 5S devastati, una maggioranza bulgara, ma frantumata in mille rivoli, che si guarda in cagnesco e senza visioni unitarie. Una maggioranza, insomma, che si può contare, ma su cui non si può contare.